Filmato a Kenozero, un villaggio isolato nel nord della Russia dominato dalla presenza inclusiva di un grande lago, The Postman’s White Nights si serve degli stessi nativi per descrivere la vita quotidiana di una comunità i cui ritmi non sembrano aver subito cambiamenti dopo la dissoluzione dell’unione sovietica. Konchalovsky scrive la sceneggiatura insieme alla giornalista Elena Kiseleva, lavorando in modo minimale al plot e riducendolo quindi ad una semplice traccia, che prende forma intorno alle peregrinazioni di un postino, i cui movimenti procedono dall’ufficio postale ai pochi abitanti che circondano il lago. L’unico collegamento con il mondo esterno e questo piccolo agglomerato sospeso nel tempo, è la posta, perchè il resto trasmette solamente un’eco della Russia di Putin, dalla musica radiofonica, al segnale di un paio di televisioni scassate che restituiscono le emissioni nazionali. Quello di Konchalovsky è uno sguardo contemplativo e ironico, legato a piccole gag quotidiane, all’immutabilità di una campagna che sembra non essersi accorta di niente, ad una comunità colta in un’irreale stato transizionale di matrice quasi Checoviana. Kenozero sembra un’anomalia, un pezzo di Russia completamente cancellata dalla politica del paese, una realtà da dimenticare che Konchalovsky rende ancora più astratta con uno sguardo non intrusivo, rimanendo proprio a pelo d’acqua, come le lente traversate del postino a bordo della sua imbarcazione, utilizzata per attraversare il lago durante le rituali consegne.
Lyokha è il personaggio costruito da Konchalovsky insieme alla Kiseleva, ma è a sua volta interpretato da un postino che vive proprio a Kenozero, Aleksey Tryapitsyn, esattamente come le persone che incontra; pescatori, agricoltori, vecchi devastati dalla vodka e dall’immutabilità del tempo.
Il contrasto tra il mondo fuori e questa frattura nel tempo emerge attraverso Irina (Irina Ermolova), uno dei pochi attori professionisti inseriti nel cast da Konchalovsky; durante la routine delle consegne, Lyokha spera in una svolta romantica, si affeziona a Timur, il figlio di lei, a cui insegna l’arte della pesca; ma la donna ha in progetto di andarsene, i suoi modi sono già quelli di chi ha abbandonato una terra dimenticata per tentare fortuna in città, e la possibilità di un impiego improvviso la staccherà definitivamente da quei luoghi. Proprio su questa differenza, la vita di Lyokha emerge in tutto il suo girare a vuoto, ipostatizzata in un tempo rituale che non ha nessun riscatto salvifico. Quando Lyokha porterà Timur a pescare in barca, giunti in una zona del lago infestata dalla vegetazione e con uno sfondo minaccioso, lo terrorizzerà raccontandogli la leggenda del Kikimora, tanto che il ragazzino chiederà di tornare indietro in una delle tante sequenze contemplative che rivelano quello scarto tra staticità del tempo e mobilità del pensiero, annullamento dell’essere e terrore panico di esser parte di quello stesso vuoto.
Proprio in questo oscillare tra racconto folkloristico (le danze, gli aneddoti e il favolistico gatto che appare a Lyokha) e descrizione del tempo, affabulazione e vita reale, risiede la forza del nuovo film di Konchalovsky, la cui immagine paradigmatica è quella del razzo che attraversa l’orizzonte sopra al lago, forse la traccia di un’esercitazione militare in una zona circostante, ma più semplicemente, il continuo infrangersi di due realtà incongrue, dove quella di Kenozero potrebbe proprio essere osservata dal razzo in volo, in un’aberrazione dimensionale.
Non è un caso che gli impercettibili interventi di una musica “dronica” sullo sfondo, un bordone che si confonde ora con il dialogo, in altri momenti con i suoni della natura, siano opera di Eduard Artemev, grande compositore di musica elettronica, autore delle colonne sonore per alcuni dei film più noti di Andrei Tarkovsky, quasi a voler rafforzare l’idea di un progetto a metà tra documento e immagine del tempo, racconto popolare e una bizzarra science-fiction.