Nel cinema di Denis Côté predomina quel gusto apparentemente scientifico per l’osservazione, filtro che lo separa da bestiari e formicai anche quando elabora i suoi film sulle convenzioni del linguaggio “documentario”. Se c’é un aspetto che ne dovrebbe scardinare gli stereotipi, questo risiederebbe nella modalità con cui lo schema viene minato dall’interno sconfinando negli eccessi e nelle sbordature del grottesco. Ecco che sorge un dubbio: il ricorso costante a simboli di opacità pesantissima sembrano inchiodare i film del cineasta canadese nella cornice del racconto allegorico, quanto di più lontano dalle possibilità del cinema di aprirsi anche alla deriva.
Viene allora il sospetto che più di Boris Malinovsky, l’arrogante industriale che non riesce a scendere a patti con la propria coscienza, sia lo stesso Côté ad aver bisogno di liberarsi dal gusto per una perfezione formale ostentata, non così diversa dal taglio sartoriale dei vestiti di Boris.
Le possibilità che questo si apra alle vertigini del cuore e che si avvicini alla moglie Beatrice, ridotta ad uno stato appena cosciente e vittima di una depressione che la inchioda sul letto, sembrano impossibili. Annichilito dal ricordo di una donna coltissima e perfetta, Boris controlla ogni aspetto della propria vita, incluse le nuove avventure sessuali, con il rigore di un architetto brutalista e quel pezzo di Québec geometricamente perfetto, sintetizzato dalla sua abitazione calata in mezzo alla montagna. La natura ha ovviamente un ruolo del tutto decorativo, tanto da ostacolare il desiderio di Boris di avere tutto a portata di mano esemplificato dalla sequenza dove chiede all’amministrazione del villaggio che la strada di collegamento tra la sua casa e il mondo civile, venga finalmente asfaltata.
In questo contrasto del tutto superficiale tra stato naturale e predominio del mercato, Côté escogita l’apparizione di un guru spirituale interpretato da uno straordinario Denis Lavant, strana presenza che compare nella vita di Boris, conoscendo qualsiasi cosa del suo passato e del suo presente, e spingendolo a compiere un percorso di autocoscienza.
Da qui in poi Côté inanella una serie di deliranti connessioni con la mitologia greca, a cui destina il racconto orale dell’illuminato Lavant oltre ad una serie di simboli che lo legano alla figlia, alla madre ed infine a Beatrice.
Senza evidenziare minimamente una qualche separazione tra dimensione onirica e un diverso livello di realtà narrativa, il regista canadese invece di regalarci il viaggio nella coscienza di un uomo, chiude tutto in un quadretto impenetrabile, dove la presenza di simboli diversi mantiene la stessa qualità e una distanza freddamente esemplare. Una lieve speranza di cinema emerge allora solo dal volto di Lavant, per l’appunto un fantasma.
Boris sans Béatrice di Denis Côté – Berlinale 66: Concorso
Tocca affidarsi a Denis Lavant per trovare un fantasma di cinema nel formicaio sotto vetro di Denis Côté. In concorso a Berlino 66, la recensione