domenica, Dicembre 22, 2024

Bypass di Duane Hopkins – Venezia 71, Orizzonti

Racconto britannico dal sottosuolo quello di Duane Hopkins presentato nella sezione Orizzonti a Venezia 71

Tim è un bravo ragazzo. Tim è un criminale. Tim ha a cuore chi gli sta vicino e si sente responsabile nei suoi confronti. Tim ha bisogno di soldi. Tim è disoccupato. Però lavora. Tim è un piccolo ricettatore, vende cose rubate. Il fratello maggiore, Greg, è appena uscito di prigione. La sorella Helen, a suo carico, gli mente dicendo che va a scuola. La sua ragazza Lilly lo ama e si fida di lui. E Tim ama Lilly, in lei trova rifugio e speranza. Ma un giorno il suo fornitore viene aggredito e il mondo di Tim assume una dimensione nuova, minacciosa. Adesso c’è gente pericolosa che pretende cose da lui. Disperato – pur odiando la decisione che è costretto a prendere – si rivolge a Greg. Mentre Lilly lo cerca, Tim e Greg conoscono un solo modo di trovare i soldi che gli servono. Ed escono nella notte.

A distanza di sei anni da “Better Things” presentato al Festival di Cannes, il regista torna a parlare di persone e legami. Stavolta, però, Hopkins non riesce negli intenti che si prefigge impostando una storia sofferente, nella quale inserisce elementi al suo interno che spesso non vengono elaborati, e il cui unico scopo pare sia quello di provocare un forte disagio nello spettatore senza un’effettiva empatia con i personaggi che segue. C’è una via di uscita rispetto alla pesantezza delle responsabilità e del dolore oppure rimane soltanto un’illusione di Tim? un interrogativo che non rimane semplicemente sospeso, ma che viene spento, lasciato andare.

Non va meglio sul piano estetico: le inquadrature frenetiche nella prima parte del film, quelle che seguono Greg (Benjamin Dilloway), il maggiore dei fratelli in fuga dalla polizia, o che filmano Tim (George Mckay) quando ha un attacco epilettico, lasciano spazio ad un ritmo lento che subentra nella seconda parte e che sembrerebbero procedere di pari passo con il riscatto del giovane Tim, un allentamento che non sembra aver troppo senso, anche in virtù di quella sospensione conclusiva che lascia tutto in una dimensione irrisolta più che indistinta. Un contrasto che si avverte anche attraverso i colori iperrealisti, accentuati, troppo marcati e definiti, quasi in opposizione al  tentativo di costruire un film che strizza l’occhio ad un’estetica di tipo documentaristico.

Racconto inglese dal sottosuolo con molta carne al fuoco, e con l’intenzione di puntare sulle dinamiche sociali riducendole però all’osso, svilendole, e non sviluppandole adeguatamente.  Hopkins ha fretta di elaborare un percorso di formazione al negativo, senza farsi carico della sofferenza dei personaggi, basta pensare a come sono appiccicate insieme la descrizione del disagio economico e famigliare dei tre fratelli che hanno perso la madre, al tema della malattia di Tim di cui non abbiamo alcun elemento, alle conseguenti scelte criminali del ragazzo; tutto compresso e molto caotico.

Rachele Pollastrini
Rachele Pollastrini
Rachele Pollastrini è curatrice della sezione corti per il Lucca Film Festival. Scrive di Cinema e Musica

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