E’ dedicata a Lech Kowalski la nutrita retrospettiva, curata da Alessandro Stellino, dell’edizione 2014 di Filmmaker Festival. Uno sguardo che abbraccia tutta la carriera del documentarista statunitense – ma nato a Londra da genitori polacchi e poi parigino per adozione –, protagonista della brulicante, bruciante, autodistruttiva scena punk rock newyorchese a partire dalla fine degli anni ’70. Fra i lavori americani selezionati, non possono mancare D.O.A. (A Rite of Passage) (USA, 1981), leggendario rockumentary incentrato sull’ultimo tour dei Sex Pistols, nei pochi mesi precedenti la morte di Nancy (1978), e Rock Soup (1991), viaggio fra gli homeless del Lower East Side di Manhattan. Kowalski tornerà più avanti a occuparsi direttamente dell’universo punk con le biografie Born to Lose (o The last rock and roll movie), ritratto di Johnny Thunder, e con Hey! Is Dee Dee Home? (2003), costruito a partire da un’intervista con il bassista dei Ramones. Nel frattempo, Kowalski gira in Europa, in Polonia: Boot Factory (2000), storia di un gruppo punk che sopravvive a fatica producendo scarponi di cuoio e rimane vittima della tossicodipendenza da eroina, e On Hitler’s Highway (2002), sull’umanità varia, e spesso disperata, che si incontra ai margini della più antica autostrada polacca, progettata da Hitler per aprirsi un varco diretto verso la Russia. Alle origini polacche, riviste attraverso gli occhi della madre deportata in un campo di concentramento russo – cui si aggiunge la testimonianza del regista, che ripercorre la sua carriera–, è direttamente dedicato East of Paradise (2005), per molti il suo capolavoro.
Nell’universo documentaristico di Kowalski, Charlie Chaplin in Kabul (2003) – il titolo somiglia a quello del best-seller di Azar Nafisi, Leggere Lolita a Teheran, uscito nello stesso anno – occupa dunque un posto a sé, una sorta di unicum nella filmografia del regista americano. Prima metà del 2002. Tre mesi dopo la caduta del regime Talebano in Afghanistan e sei mesi dopo l’11 settembre, Kowalski accompagna a Kabul l’allora direttore della Cinémathèque française, Peter Scarlet, americano residente a Parigi, e la moglie Katayoun Beglari, corrispondente di Voices of America. Kowalski trascorrerà otto giorni a Kabul, senza mai smettere di filmare. Scopo del viaggio di Scarlet è riuscire proiettare, nei pochi cinema rimasti aperti, nelle scuole e negli orfanotrofi, le comiche di Charlie Chaplin e Buster Keaton. Simbolo del cinema che resiste e sopravvive, anche in mezzo, e dopo, la guerra.
Il risultato è un viaggio di sessanta minuti nella capitale afghana devastata dai recenti bombardamenti americani. Edifici sventrati, polvere e macerie, bambini che giocano nella carcassa di un aereo abbattuto, quasi un contraltare, sdraiato in orizzontale, delle torri cadute a Manhattan. Al centro ci sono gli orfani. Lo sguardo di Kowalski è pieno di pietas, senza essere mai patetico. A bruciare è il contrasto con la Kabul dei primi anni ’80, per come emerge, di sfuggita, dalle immagini di Primavera a Kabul, il film salvato clandestinamente dalla furia talebana e proiettato per Peter Scarlet e la moglie. A resistere apparentemente indenne allo sfacelo è solo la burocrazia. Munito di una camera a mano, Kowalski – che resta sempre fuori dal campo visivo, aprendo e chiudendo il film con un commento off – si sofferma su quello che non funziona. Manca la tecnologia, gli interpreti sono inadeguati, i proprietari di cinema introvabili, i funzionari assenti, i permessi mancano. Quando un film viene proiettato in una grande scuola, riaperta dopo la caduta del regime e gremita di bambini urlanti, ma un po’ incantati, è come se accadesse un piccolo miracolo. E così, proiettare Chaplin a Kabul diventa davvero – nell’arco dei sessanta minuti in cui Kowalski restringe tutto il girato – un atto di resilienza.