Okinawa è un luogo ambito da Naomi Kawase, lo racconta in alcune interviste e non lontano dall’isola giapponese ci ha ambientato il suo ultimo “Still the water”, riflessione sull’evanescenza della vita. Sabu ci ha vissuto tre anni e l’ha utilizzata come sfondo per girare il suo ultimo Chasuke’s Journey, prodotto da Takeshi Kitano con il suo “Office” e che nel 1993 si era recato sull’isola per girare Sonatine.
Sono connessioni solo apparentemente arbitrarie, perchè Chasuke’s Journey, al netto del rutilante multiverso pop che mette in scena, è attraversato da uno spirito processionale e ritualistico feroce, desunto in parte dal folklore dell’isola, inclusa la relazione con il mondo degli spiriti che dalla terra degli dei (Nirai-Kanai) comunicano attraverso gli elementi della natura.
Se quindi sembra Kitaniana l’ipertrofia frammentaria di personaggi, situazioni e generi (il Kitano di Takeshis’ e di Glory to the filmaker) ma anche vicina al delirio metatestuale di Hitoshi Matsumoto, a sorprendere non è il dispositivo architettato come un puzzle, vera ed effettiva zavorra del film, ma la vitalità dolente e realistica di alcuni frammenti che emergono tra gli ingranaggi.
Non siamo del tutto convinti si tratti di un film “mistico”, sopratutto dopo Miss Zombie, opera infernale dove l’unico contatto con l’infinito si legava a tradizioni ctonie, le stesse che in fondo ancorano alla terra i personaggi di Chasuke’s Journey mentre gli dei cercano di imbastire un patto narrativo tra mondo immaginato e mondo creato, una condanna che Chasuke e Yuri scongiureranno rompendo quel patto, uscendo dalle storie narrate e cercando appunto il dio che è in loro.
Il paradiso nel film di Sabu è regolato da una crew di sceneggiatori abbigliati con costumi tradizionali mentre sono intenti ad esercitare la scrittura calligrafica sugli emakimono; i rotoli si aprono all’infinito e posseduti da una furia incessante, i pittori scrivono le storie che si riferiscono ad altrettanti percorsi di vita sulla terra. Ma mentre lo stile dei racconti è impostato sulle convenzioni della narrativa di genere, il demiurgo tuona dall’alto il nuovo trend da imboccare per gli scrittori instancabili: Avant-Garde!
Da questo momento in poi gli scrittori si prenderanno la licenza di inventare storie assurde, causeranno bizzarre mutazioni ai loro personaggi e soprattutto cominceranno ad interferire l’uno con l’universo narrativo degli altri, causando disastri e anomalie.
Ma Chasuke è innamorato di Yuri, uno dei personaggi creati in paradiso, e per evitarne la morte annunciata, deciderà di trasferirsi sulla terra come il Clarence Oddbody de “La vita è meravigliosa”.
Una volta sceso ad Okinawa dovrà sbilanciarsi tra i capricci degli scrittori, che lo obbligheranno ad una serie di incredibili mutazioni, e i suoi super poteri che gli consentiranno di contrastare la narrazione imposta, guarendo le anomalie di personaggi infermi, sfigurati, vicini alla morte, costretti ad una vita difficile da scelte di copione folli e crudeli.
Ecco che Sabu ne approfitta per costruire una marmellata di genere “en abyme” un po’ come il Sion Sono di “why don’t you play in hell?“, ma con una maggiore marcatura metalinguistica; al di là del guscio, rimane tra le pieghe dei racconti costruiti sull’orlo del corto-circuito, una forza spontanea non dissimile dal realismo brutale di Miss Zombie, anche se in questo caso si tratta di un’operazione molto meno riuscita.
In particolare pensiamo alle feste rituali con canti e danze in cui Chasuke si trova improvvisamente calato, i volti di un’umanità derelitta, maciullata dal capriccio della divinità, il vagare di Yuri e Chasuke sulla spiaggia, finalmente liberi dai loro creatori.
Una libertà che paradossalmente Sabu non riesce a imboccare del tutto.