Fiato sospeso quello di Costanza Quatriglio, “il nostro lavoro a volte lo facciamo così”, dice nelle note di regia, dopo aver cercato per quattro anni produttore e distributore che accettassero un film del genere, “sconfinamento tra i generi, tra le definizioni, sulla libertà”.
Fiato sospeso in nostro mentre ascoltiamo Michele Riondino dar voce ad Emanuele, il giovane ricercatore della facoltà di Farmacia di Catania, morto nel 2003 di tumore ai polmoni, autore di quel memoriale sulle condizioni dei laboratori e i rischi spaventosi per la salute (36 persone ammalate, molte di cancro, negli ultimi anni) che ha fatto chiudere la facoltà e aprire un processo nel 2008.
“Ho capito che questa storia aveva una drammaturgia potente che andava raccontata, non come un documentario ma in un film. Il dramma di questi universitari che passano dalla fiducia incondizionata nei professori, dalla gioia per la scoperta del loro talento, alla disillusione più totale, è lo stesso dei giovani ricercatori costretti a rifugiarsi all’estero. Non voglio puntare il dito contro l’Università di Catania, ma porre la vera questione: l’Italia non è un Paese attrezzato per gestire il progresso, perché quello che è successo a Catania prescinde perfino dalla logica del profitto che, se non giustifica, almeno spiega il dramma di siti industriali come l’Ilva e Marghera“.
Porre la “vera questione” girando un film senza mezzi economici, affidare la parte di Stella, anche lei morta di tumore, ad Alba Rohrwacher, una delle certezze del nostro cinema, dare alla fotografia, al montaggio, alla colonna sonora tutta la forza comunicativa ed evocativa che si dà ad un film, è una scelta vincente. La “vera questione” di un Paese alla deriva, capace di tradire i suoi giovani nel modo più vile, non può più essere solo oggetto di documentario, almeno non nel senso tradizionale del termine.
La storia vera rischia d’impallidire nella ricostruzione cronachistica o esclusivamente documentaria, di perdere lo spessore drammatico della vita vissuta. E questo sa bene la regista, sempre attenta, nella sua predilezione per i corti e i mediometraggi, ad inventare un cinema essenziale, di forte impatto , che rompa gli schemi di genere per un approccio vitale, libero e creativo alla materia. Emozioni e pensieri di Stella si formano sul viso della Rohrwacher in un close-up ininterrotto. Occhi e labbra raccontano di una vita spezzata con pause, a fatica, a volte con un tremito represso.
E sono occhi ancora increduli mentre la voce racconta, pieni di un’innocenza che si fa fatica a guardare senza sentirsi invadere da rabbia, dolore, sconforto.
In altro modo, con la gestualità un po’ frenetica e il look scanzonato della rockettara che ha scelto di diventare, Anna (Anna Balestrieri) l’amica e coinquilina di Stella, ci trasmette lo stesso doloroso senso di impotenza di fronte ad una morte assurda, per cui forse nessuno sarà chiamato a pagare. I titoli di coda dicono infatti che il processo non ha ancora accertato nessuna responsabilità e la facoltà nel frattempo è stata riaperta.
Mezz’ora di immagini che alternano l’immobilità di Stella, di cui scorgiamo solo il viso e ascoltiamo la voce, materializzazione di un’ombra in uno spazio inesistente, con esterni dinamici, nervosi, in cui Anna si muove, suona, canta con la sua band, corre stravolta in ospedale dall’amica, si scatena con la macchinetta che non dà il resto, si arresta a guardare il vuoto, senza lacrime. Aveva cercato, Anna, di mettere in guardia Stella da quel mondo da cui era scappata per suonare in un gruppo indie rock, ma forse, di più, era scappata “perché amava troppo la chimica” racconta Stella. Perché anche Anna aveva avuto un sogno, fare la ricercatrice. E poi la musica, almeno quella.
E’ Stella a raccontare di Emanuele, morto in qualche ospedale di quell’America dove avrebbe dovuto invece andare con la sua grande intelligenza ad esplorare le strade infinite della scienza. Un master, un futuro, chissà. Ed ecco com’è finita.
Ora Emanuele è un mucchietto di foto che il padre conserva, fatte lì, quando nessuno poteva pensare che sarebbe morto di un cancro guadagnato nei laboratori di chimica dell’università di Catania, dove trascorreva il suo tempo migliore fra provette, filtri e alambicchi.
Cinema/ verità, dunque, ma forse sarebbe meglio definirlo “la verità al cinema”, quella che altrove non sappiamo.