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Cosmos di Andrzej Zulawski – Locarno 68, Concorso

Un grande ritorno quello di Andrzej Zulawski con Cosmos, in concorso a Locarno 68. La recensione

I più distratti hanno accolto il nuovo film di Andrzej Zulawski cercando una qualche connessione con Possession e con La femme publique, ma l’universo palindromo del grande regista polacco, entra ed esce dai livelli di realtà rappresentata sin da Trzecia czesc nocy e dal successivo Diabel; infernali viaggi interiori che nella filmografia di Zulawski (dovendo semplificare) si assottigliano fino ad indagare la più semplice e complessa tra le manifestazioni di un mondo che si rovescia all’infinito dentro se stesso. Quello relazionale. Dal terzo lungometraggio in poi, Zulawski decostruisce la stessa storia d’amore, elaborando successivi sdoppiamenti della visione i cui segni tornano ad assumere l’imponenza della Storia solo con Boris Gudonov e La Note Bleue per poi tornare nei territori tra erotismo e interiorità con il bellissimo Szamanka e il sottovalutato La fidélité, film dolente e personalissimo e che in qualche modo introduceva l’entropia della sua stessa relazione condivisa con Sophie Marceau lungo sedici anni di vita.
Andrzej Zulawski torna quindi alla regia dopo quindici anni ma sopratutto dopo La fidélité, con un film che sembra ripercorrere la sua filmografia alla luce delle opere legate alla famiglia nucleare attraverso il filtro letterario di Witold Gombrowicz.

Fuchs e Witold, due amici, arrivano in un piccolo hotel famigliare di Sintra, in portogallo. In questo luogo ameno e immerso nel verde della montagna incontrano la padrona della pensione (Sabine Azéma) sposata per la seconda volta, madre di una figlia che vive nella stessa struttura con il giovane marito. A completamento della galleria di personaggi, una cameriera con un labbro deforme, uno degli elementi più forti del perturbante a cui Zulawski fa ricorso durante tutto il film oltre ad una serie di eventi eccezionali che sembrano risuonare con i percorsi letterari suggeriti da Witold, le cui citazioni incessanti provengono non solo dal testo di Gombrowicz ma da svariate opere letterarie.

I segni sono quelli di un uccello impiccato, di oggetti e di un gatto a cui spetta la stessa sorte; simbologie sulle quali ci si può attardare quanto si vuole alla ricerca di una dimensione occulta o peggio ancora esoterica, ma che sono semplicemente esche, così come lo erano i calzini rosa di Possession e le continue messe in abisso dello schema binario dal doppio alla relazione tra individuo e città, considerato che il film più celebrato di Zulawski era anche profondamente radicato allo spirito di una città come Berlino, in quegli anni ancora dilaniata.

Ma nel cinema del regista polacco sono importanti quei continui rovesciamenti della palpebra che oltre ad avere un’esplicita relazione con la tradizione surrealista, ne fuoriescono con una più complessa destrutturazione dello spazio scopico e rappresentativo. Non è solo la scelta delle ottiche e la fotografia ai limiti della deformazione per come viene curata dall’ottimo André Szankowski, non a caso già con Raoul Ruiz per la miniserie Mistérios de Lisboa, ma il continuo trascolorare del sogno nell’incubo, di un segno dentro l’altro, del desiderio nella sua forma annichilita.

Zulawski si serve dello spazio teatrale, come accade sovente nel suo cinema, basta pensare al prendere forma, negli interstizi di un set, di un film come il bellissimo L’important c’est d’aimer; ma questo accade per individuare un luogo di transito, uno spazio ec-centrico e di passaggio che viene dissolto per assumere il senso di una trasformazione in divenire,  come accade nel cinema di Rivette (viene in mente in questo caso Céline e Julie vanno in barca) in Alice ou la dernière fugue di Chabrol e infine, nel cinema di David Lynch, il cui Inland Empire, ambientato in Polonia, ha moltissimi echi Zulawskiani, proprio nella costruzione di un teatro dell’assurdo che spezza la divisione tra spazio rappresentativo e spazio interiore.
Assolutamente geniale quindi la scelta di ambientare il film in una località isolata e fortemente realistica come Sintra, popolandola poi di fantasmi dell’inconscio, ma anche frammenti di un cinema che non si fa più, la cui ec-centricità è direttamente proporzionale al percorso ondivago della rappresentazione, tra distacco e possessione.

RASSEGNA PANORAMICA
Voto
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Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.
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