Scritto e diretto da Gilles Paquet-Brenner a partire dal secondo romanzo di Gillian Flynn (Gone Girl) Dark Places fa sentire la mancanza della scrittrice americana perché in mano al regista del pessimo “La chiave di Sara” perde per la strada tutta l’ambiguità, i motti di spirito e l’ironia che contraddistingue la scrittura dell’autrice di Kansas City.
Paquet-Brenner non interpreta il plot ma lo aggancia ad una trasposizione tanto fedele quanto stolida rispetto al doloroso processo di agnizione che coinvolge i personaggi principali . Libby, che nel testo della Flynn è una ragazza dai capelli rossi e dalla corporatura tarchiata, diventa Charlize Theron, donna adulta che conserva i segni di un trauma consumatosi venticinque anni prima. Il responsabile della violenza estrema che ha sterminato la sua famiglia è il fratello Ben (Corey Stoll), in carcere a scontare la pena. I dubbi sulla sua colpevolezza vengono sollevati da una una combriccola di appassionati, la cui missione è quella di riesumare casi irrisolti ed errori giudiziari e che decide di finanziare le nuove ricerche retribuendo la povera Libby, prigioniera del suo dolore e in serie difficoltà finanziarie.
Quello che avrebbe potuto essere uno spunto per elaborare una continua messa in abisso del dispositivo mediatico, con i membri del Kill Club ad occupare lo spazio dello spettatore passivo mentre mitizza il dolore della vittima e allo stesso tempo determina la proliferazione delle informazioni come in una rete sociale, diventa una caricatura grottesca limitata al primo ingresso di Libby nello spazio di aggregazione del gruppo, dove alle intenzioni apparentemente nobili del club si sovrappone la patologia di un gruppo di voyeur con le più svariate perversioni. Tutti gli scambi tra la donna e Lyle Wirth (Nicholas Hoult), si limitano a brevi interventi esplicativi, dove il referente del gruppo sottolinea didascalicamente alcuni concetti, tra cui la sensazionale scoperta che “tutti quanti mentiamo”.
Ed è proprio qui il problema principale del film di Paquet-Brenner; incapace com’è di restituire la complessità di un trauma ri-visto a ritroso, per la distanza che frappone tra il suo sguardo e la storia emotiva dei personaggi, ricorre spessissimo alla parola o ad una scrittura che sottolinea l’invisibile, snidandolo letteralmente dalle zone di oscurità, non importa se i mezzi sono quelli di uno zoom rivelatore o di un flashback che sgombra qualsiasi dubbio, è l’utilizzo che ne viene fatto ad appiattire il risultato. È come se il regista francese non riuscisse ad andare oltre la rappresentazione schematica degli eventi, trasformando tutto in un whodunit televisivo, dove il passato è semplicemente un tassello del puzzle nascosto dietro la schiena, improvvisamente fatto comparire.
Qualsiasi elemento, senza un processo o un segnale, anche semplicemente visivo, emerge dal niente rischiando la deriva caricaturale; tra tutti, il personaggio che subisce in modo estremo un trattamento così distorcente è quello di Diondra interpretato da Chloë Grace Moretz, la ragazzina con tendenze sataniste che vive a sua volta le conseguenze di una disfunzione famigliare.
La Moretz ha un talento che le consente di concentrare nei gesti e nell’espressione del volto, quella convivenza impercettibile tra dolore e cupio dissolvi, così come la Theron, nella sua interpretazione ieratica, nasconde il dolore nella deambulazione, nella risolutezza dei modi, nella capacità di esprimere con il corpo spaesamento e perdita identitaria; tutto questo nonostante Gilles Paquet-Brenner e il suo tentativo, quello si davvero criminale, di mettere gli attori con le spalle al muro, chiuderli tra i confini di una scrittura che non riesce a far filtrare vita e dove tutti gli elementi della memoria, sono li per riempire lo spazio di una detection convenzionale, senza alcuna profondità.