Peter Kern fa film e non da poco, dal 1983. Come regista. Come attore ha alle spalle una carriera lunghissima e prestigiosa, iniziata sotto l’egida di Syberberg e continuata con Fassbinder, Daniel Schmid, il primo Wenders, Werner Schroeter, il compianto Christoph Schlingensief. Ulrich Seidl gli ha dedicato un ritratto in forma di cortometraggio e Rosa von Praunheim lo ha chiamato a testimoniare in “Die Jungs vom Bahnhof Zoo” (2011) come unico rappresentante della categoria dei maschi omosessuali che vanno con le marchette. Basta questo a far sì che Peter Kern abbia sempre un posticino nel nostro cuore.
Peter Kern fa anche film. Ha scritto, diretto e concepito come un’operetta di celluloide Der letzte Sommer der Reichen, invasato da quel senso – sotto sotto ironico – di controllo totale che trasuda da ogni cosa che fa ideandola in prima persona. L’ultima estate dei ricchi è un gioco al massacro ambientato in una Vienna di riccastri e aspiranti modelle, di suore equivoche e pastori belgi da concorso di bellezza. La trama è presto detta: la figlia, arrogante e in carriera, di un magnate morente (con simpatie naziste) s’illude si poter fare quel che vuole con l’eredità, ma a scompaginare il tutto interviene l’amore saffico per la suorina-infermierina – in realtà una stanga da passerella – che si era presa cura del vecchio. A complicare la vicenda, una losca sottotrama di malavita e killer in affitto.
Il film è piacevole, curato, impeccabile nella scelta delle inquadrature. La colonna sonora sembra un centone della musica classica più sputtanata, e anche in questo caso è facile scorgervi un intento sornione da parte di Kern. Peccato che il tutto si risolva in un gioco (un giocattolo?) fine a se stesso, che vorrebbe fare la pelle ai ricchi e invece si rivela più aristocratico e ozioso di loro. Qua e là tracce di Fassbinder, di Schlingensief, persino di Polanski, ma quello che manca è un marchio di fabbrica autonomo, capace di infondere linfa autentica nella pellicola. Nei panni del «maggiordomo factotum» dell’insopportabile protagonista troviamo Winfried Glatzender, mitico interprete de “Die Legende von Paul und Paula” (1973) di Heiner Carow, l’unico vero blockbuster della DDR. Al di là della scelta di casting radical chic da parte di Kern, nato a Vienna e cresciuto nella BRD, Glatzender regala forse i momenti più vivi di questo film fascinoso ma nato morto. In tema di vibrazioni lesbo, la 65. Berlinale ha meglio da offrire, a cominciare dallo scanzonato, rockeggiante, scandinavo “Dyke Hard” di Bitte Andersson.