Parlare di un artista è il tentativo, arduo, di avvicinamento all’uomo e alla sua opera, un’ effrazione che il mezzo (parola, musica, immagine) compie alla ricerca di chiavi di lettura per definirne gli stilemi, gli artifici, gli atteggiamenti espliciti o i segni impercettibili che l’opera contiene.
Dimmi che illusione non è, un corto di Federica Biondi prodotto da Vittoria Pesante, in collaborazione con 99 milioni di colori, sceglie di partire dal privato e articola i piani di ripresa in un flusso continuo di dettagli sul mondo intimo di Wolfango Peretti Poggi, “uno che sa dipingere”, dice l’artista di sé, rifiutando altre etichette.
Lo spazio dell’incontro è la sua stanza della musica e delle letture, non il suo atélier di pittore. Il tocco deciso del violino dalla Suite n.8, Ardeleneasca di Bughici guida lo sguardo fra gli angoli di un ambiente rétro, dove libri antichi dalla copertina di bruna pergamena rigida, la tastiera consumata di un pianoforte, le gocce del lampadario di Boemia raccontano una lunga vita arrivata a novanta anni.
Una morbida Chester One, icona di casa Frau, accoglie l’artista che entra in scena riempiendo il campo visivo. Figura imponente, a cui l’età aggiunge il fascino dell’antico senza nulla togliere alla vivacità del contemporaneo, parla della sua arte con la sottile cadenza romagnola che rende lievi anche i discorsi più seri.
Parla anche di fede e ragione, “ la verità ” o “ una verità ”?
Un burattino di Pinocchio sorride appoggiato vicino al bracciolo, il violino vibra mentre l’uomo dice: “Le cose che io rappresento sono provvisorie, sono accidentali, sono banali, ma al tempo stesso ardiscono d’essere fuori e oltre il tempo, il che vuol dire che se la intendono con l’eterno”.
Si tratta dunque, come invitano a fare i mistici, di guardare la terra e vedere il cielo?
No di certo, Wolfango precisa molto bene i confini del suo anti- spiritualismo, un anti- idealismo convinto che gli fa dire: “Religioso io? Credo di esserlo, nel senso dell’accezione della parola, religio, che significa unire le cose tra di loro”.
Un acino d’uva, un moscerino che si appoggia vicino, tanti altri oggetti di una quotidianità banale e trasfigurata, sono unità, sostanza che supera l’apparenza, natura che di “morto” ha solo l’appartenenza al genere, dentro c’è vita che preme. La macchina continua lenta ad esplorare e scorre sui suoi dipinti, esce di casa e si ferma sulla grande parete della sala stampa Savonuzzi di Palazzo d’ Accursio a Bologna, la città in cui Wolfango ha vissuto a lungo una vita umbratile, dipingendo le sue enormi tele piene di piccoli oggetti solo per sé e pochi. E così un giorno hanno dovuto fare un gran buco nel muro del suo laboratorio per portarle fuori. Il Cassetto, una grande tela di quattro metri per tre, ora è lì, nel cuore della sua città, con l’inventario di tutto quello che nel tempo si accumula in un cassetto, disposto in un caos apparente.
Un omaggio a Joyce…
What did the first drawer unlocked contain? chiedeva lo scrittore nell’ Ulisse.
Il discorso sull’arte va avanti, pacato e fermo nelle sue proposizioni. Inevitabilmente si arriva a Platone, di cui Wolfango respinge l’idealismo che nega l’arte in quanto mimesi della mimesi, apparenza fenomenica e dunque non verità. La “spiritualità” dell’arte è la bellezza, sostiene con forza, “è la sua forma che diventa eterna, finchè ci sarà memoria dell’uomo. Questo ci aiuta a trovare il senso delle cose…”
Trovare il senso delle cose sembra essere il nodo centrale del suo fare arte, mettere sulla tela gli oggetti di un’esistenza reale che si stratifica nelle cose che appaiono usate, consumate dal vivere. “Se l’arte non desse il senso alle cose sarebbe un brutto guaio, dovremmo ricorrere alla credenza, alla fede, per ristabilire l’equilibrio”.
La macchina si avvicina e guarda dentro il cassetto, lascia il tempo agli oggetti di fissarsi nell’occhio, la memoria trattiene qualcosa che va oltre l’immagine del visibile, ed è la permanenza di ciò che dalla forma promana e la rende contigua e coerente con altre forme. L’immagine, anche se semplice, povera, disadorna, diventa allora il “luogo” dell’incontro di visibile e invisibile e rende “ l’apparenza fenomenica fondamentale, perché in quella trovo la sostanza del mondo, la sua razionalità”. Ora la voce tace e il violino riprende a suonare, è di scena un bianco cratere di farina che fa da corona a gialli, squillanti rossi d’uovo tremolanti al centro della fontana. Torna la voce di Wolfango mentre il quadro famoso si anima, contiene quei frammenti di memoria che “sono ciò che ho rappresentato con grande onestà e innocenza”.
E’ quell’innocenza di bambino che ora rivive nell’ arte dell’uomo che ha vissuto, e chiude il cerchio.
Le ultime tele, un quaderno di disegni, la mano rugosa di un contadino che stringe un guscio rotto di noce in primo piano.
Colori, suoni, forme della realtà e affioramenti dell’inconscio, simmetria razionale e irregolarità naturale che il film registra con sommessa naturalezza.
Una voce femminile canticchia Parlami d’amore Mariù mentre tira la sfoglia sul tagliere, forse la madre, o la nonna, o la tata. La voce si sovrappone al suono del violino.
Un giorno, di fronte a questo enorme Tagliere con uova e farina di cinque metri per due una bambina esclamò: “Sono io quando ero piccola! ”.
Dimmi che illusione non è, il trailer
Trailer – Dimmi che illusione non è from 99 Million Colors on Vimeo.