“La retorica delle terrazze nel cinema italiano“. Potrebbe essere il titolo di una proposta critica se non suonasse già di per se demenziale, ma l’idea che questo microcosmo popolare abbia rappresentato troppe volte il luogo deputato per raccontare i vizi e le meschinità del paese è una certezza, fino all’ultimo discutibilissimo film di Francesca Archibugi.
Ma la terrazza del nuovo film diretto da Sergio Rubini, a differenza di quelle “corali” a cui siamo abituati è uno spazio del tutto inaccessibile, separato a doppia mandata dall’attico romano affittato da Vanni (Sergio Rubini) e dalla compagna Linda (Isabella Ragonese), lui scrittore affermato, lei giovane e talentuosa ghost writer. Linda ha un terrore atavico dei gatti e la terrazza diventa luogo inospitale, osservato a vista da un portiere guardone, proprietario del felino molesto.
Il perimetro abitativo si sovrappone allora a quello teatrale, dove i piani della coppia, in procinto di uscire per una serata con l’editore di Vanni, vengono sabotati prima da Costanza (Maria Pia Calzone) e successivamente dal marito Alfredo, chirurgo sguaiato e spaccone interpretato da un formidabile Fabrizio Bentivoglio, entrambi pronti a far deflagrare la propria crisi sulle incertezze e le fragilità dei due scrittori.
Rubini guarda maggiormente al Kammerspiel polanskiano che allo sbrodolamento ombelicale sui massimi sistemi del cinema italiano a cui ci si riferiva, tanto che come in Carnage, seppur in una forma molto più trattenuta, l’obiettivo è quello di ribaltare le simmetrie dello spazio, introdurre alcuni elementi di disturbo e far esplodere la dinamica corale con una lenta erosione dei presupposti costitutivi, utilizzando come veicolo il personaggio di Linda, l’unica ad avere una relazione non riconciliata con lo spazio sociale anche in termini prettamente visivi e di organizzazione del punto di vista: la terrazza, il panico, la musica ad alto volume, l’infrazione delle regole, il modo in cui Rubini la segue costantemente. Linda è l’unica che tenderà a separarsi dalla morsa consociativa del “gruppo”, emancipandosi da quello spazio e allo stesso tempo introducendo un volo più libero nello stesso film del regista pugliese, con quella panoramica romana, l’incursione nel fantastico dalla prospettiva dei pesci e sopratutto con l’atto della scrittura come re-introduzione di un regime squisitamente immaginifico.
In questo senso Dobbiamo parlare è più sottilmente politico di altri titoli con ambientazione simile, perché pur mantenendo la struttura binaria del confronto, stereotipi inclusi, a partire da quel palleggio destra/sinistra che separa le scelte delle due coppie, la conversazione penetra direttamente la banalità del quotidiano e l’ipocrisia del linguaggio, sovrapponendo sfera individuale e collettiva, con l’introduzione strisciante e corrosiva di quell’idea di patto sociale basata sull’alimentazione reciproca della menzogna.
Se quindi l’analogia con “Il nome del figlio” può sembrare flagrante, anche nell’individuare un punto di rottura nel personaggio che subisce il bagaglio storico culturale delle generazioni precedenti (la Ragonese qui e la Ramazzotti dall’altra parte); Rubini lavora in modo completamente diverso, gioca con la parola sottilmente e sviluppa una drammaturgia dello spazio apparentemente classica, ma molto più elaborata nel concertare i piani della visione, tanto da ricordare”L’invidia”, il corto diretto da Rossellini nel 1962 per il film collettivo “I sette peccati capitali”, proprio nel modo in cui utilizza la profondità di campo e le false soggettive che isolano il personaggio di Isabella Ragonese dal contesto.
“Dobbiamo parlare” è sicuramente una delle opere minori di Rubini, ma realizzata con quell’attenzione intelligente che nel passaggio da scena a set, individua sempre una via di fuga dalla chiusura dell’ambiente teatrale, attraverso un occhio cinematografico che rende vivi gli sguardi, gli oggetti e i movimenti come agenti principali di una ricombinazione visiva e quindi interiore dello spazio.