Michael Rowe sceglie sempre un punto di vista periferico rispetto al centro dell’inquadratura, era così per Manto Acuífero, dove tutto entrava e usciva dalla delimitazione dello sguardo deciso da Caro, la bimba appassionata di insetti; e si verificava nello spazio domestico e angusto di Año Bisiesto, molto simile a questa nuova osservazione famigliare, spesso inquadrata dalla soggettiva impossibile degli oggetti, rispetto ai quali Rowe gioca per accumulo oppure al contrario svuotando lo spazio, così da trasformare il recinto domestico in una strana prigione fatta di sedimentazioni, sovrapposizioni, oggetti di consumo, surrogati del dialogo.
E il menage di David (Paul Doucet) e Maya (Suzanne Clément) sembra proprio svolgersi attraverso le ossessioni per i beni della società globale; un televisore 3D, uno smartphone con cui giocare e gli oggetti che riempiono l’abitazione della coppia, da quelli vintage che David si diverte a riparare al collezionismo di Maya per i memorabilia della cultura nerd, tutti elementi che non creano una complicità ma acuiscono il senso crescente di isolamento.
Si potrebbe pensare all’approccio entomologico di Philip Groning, ma rispetto al sadismo del regista tedesco la persistenza dello sguardo serve a Rowe per sviluppare la dialettica di un montaggio interno all’inquadratura, dove l’emotività degli attori si affida molto spesso al gesto e alle azioni senza bisogno che il dialogo debba per forza aggiungere qualcosa.
Scritto insieme agli stessi Doucet e Clément, Early Winter è un film sulla progressiva chiusura interiore di due persone che vivono sotto lo stesso tetto, e che cercano disperatamente di comunicare trovando un contatto al di fuori dello spazio condiviso, non importa se questo è l’infermeria di un ospedale, l’assistenza ad un malato terminale, il circolo degli alcolisti anonimi o una relazione extra-matrimoniale, quanto la capacità di sentirsi vivi fuori e oltre una prigione auto-costruita.
Rowe entra dentro questo abisso insieme ai suoi attori con coraggio ed empatia, raccontando più di altri cineasti ossessionati da un cinismo calcolatissimo e programmatico un bisogno d’amore che spalanca ogni giorno una porta sull’abisso, identificando nell’accumulo di dispositivi un’amplificazione di questa stessa voragine; allo stesso tempo i gesti più importanti sono a portata di mano e si manifestano proprio nell’identificazione dell’istante, in quella vicinanza possibile e immaginabile anche con persone con cui non si ha nessuna famigliarità.
L’immagine del regista nativo australiano e stanziato in Messico, sostenuta dal montaggio invisibile di Geoff Lamb e dalla fotografia livida di Nicolas Canniccioni, abituato al cinema documentario e collaboratore, tra gli altri, della canadese Micheline Lanctôt, contribuisce a creare l’idea di un cinema dell’isolamento, ma che al contempo ci dice, proprio in virtù dei suoi durissimi vuoti, quanto sia necessario raggiungere una serena solitudine per amare gli altri senza condizioni e paure.