Home news Everest 3D di Baltasar Kormákur – Venezia 72, Fuori Concorso

Everest 3D di Baltasar Kormákur – Venezia 72, Fuori Concorso

C’è un momento, all’inizio del nuovo film di Baltasar Kormákur, in cui gli ammonimenti del team di dottori incaricati di preparare la squadra dell’Adventure Consultants ai rischi dell’altitudine si trasformano improvvisamente in un presagio oscuro; l’edema polmonare, l’ipotermia, i cadaveri abbandonati nel ghiaccio, si succedono nella velocità di alcune immagini inesorabili che sembrano avere un valore illustrativo.

Al contrario, Kormákur smonta da subito le convenzioni del racconto epico introducendo quel sentore di morte che attraverserà tutto il film, separando i vivi dai morti con la spinta verso l’indefinito che trattiene i primi a terra in un’attesa quasi devozionale e conduce i secondi in vetta alla ricerca di un senso che coinciderà con l’indicibile.
Se c’è un solo elemento che depotenzia per un attimo questa tensione, è la distanza tra corpo e sfondo sottolineata dal 3D, per il resto, Everest è una dolorosa quest verso il niente che sostituisce l’immagine del disastro con le ossessioni e le paure di un gruppo di persone intenzionate a interrogare il legame con una natura indecifrabile.

L’immagine diventa allora rapporto irrisolto con l’orizzonte, bianco che cancella, vuoto che si spalanca, vertigine che inghiotte, tanto da lasciar fuori campo quasi tutte le cadute, fermando lo sguardo sulle corde che si muovono, i ganci che hanno appena lasciato un corpo, il sangue a contatto con il ghiaccio, il viaggio di soccorso di un elicottero che gira a vuoto, l’impotenza di chi a terra, non può far altro che accettare l’indifferenza della natura.
La vetta è solamente un attimo, una stazione brevissima senza trionfo, dove quel desiderio di sfidare un limite interiore si riduce ad una sequenza fugace, annientata da un viaggio all’indietro verso la morte.
Kormákur preferisce puntare sullo spazio “ferito”, invece di distruggere l’inquadratura, sono infatti le a-simmetrie tra pieni e vuoti, tra corpo e spazio naturale a costituire l’insieme dell’immagine, conferendo alla montagna il potere arcano di assorbire i corpi.

Quando Rob (Jason Clarke) e la moglie Jan (Keira Knightley) parlano per l’ultima volta, e la donna descrive la distanza del compagno come se si trovasse “sulla luna”, Kormákur filma l’ultima conversazione tra i due servendosi degli sconfinamenti tipici del melò e allo stesso tempo trattenendo l’esplosione dei sentimenti con l’inquadratura, gelidissima, del trasmettitore allineato alla cornetta del telefono; è un procedimento non dissimile dalla cancellazione della catastrofe da tutte le inquadrature, che trova compimento in quell’immagine bellissima e terribile del corpo ormai fuso con la parete della montagna.

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