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Ex Machina di Alex Garland: la recensione

Esce il 30 luglio nelle sale italiane il deludente Ex Machina, opera prima dello sceneggiatore londinese Alex Garland. La recensione

Alex Garland passa dietro la macchina da presa lavorando su una sua sceneggiatura che risente molto dell’astrattismo geometrico di certa fantascienza distopica degli anni settanta, da La fuga di Logan al Thx di Lucas, ma riferendosi anche a tutto un percorso letterario e cinematografico legato alle intelligenze artificiali che da Blade Runner arriva fino al recente Her di Spike Jonze.

In Ex Machina ci sono alcune affinità con l’adattamento che Garland ha sviluppato a partire dal romanzo di Kazuo Ishiguro per la versione di Non Lasciarmi diretta da Mark Romanek, ma a differenza del regista di Chicago, lo sceneggiatore Londinese non sembra avere la stessa forza nell’elaborazione di un’immagine ambigua e perturbante.

I presupposti ci sono tutti, ma è l’architettura cognitiva che sottende al film, con una serie di riferimenti più o meno espliciti, a risultare freddamente teorica, rispetto al modo in cui in quello di Romanek memoria e cinema collidevano fino a trovare in un’immagine indicibile, la radice del “punctum” barthesiano.
Anche se Ex Machina non lavora sulla fotografia come dispositivo mnestico, ossessione di quasi tutto il cinema di Romanek, il quesito centrale del film identificato dalla relazione tra pensiero e coscienza, cerca di stabilire una relazione analoga confrontando l’idea di soggetto con quella di simulacro, esattamente come in Her di Jonze e sopratutto cercando di elaborare un criterio di formazione del concetto di immagine.
Non è l’immaterialità di un avatar vocale, ma il sembiante di Ava (Alicia Vikander), androide sperimentale e ultimo di una serie progettata da Nathan (Oscar Isaac), proprietario della BlueBook, colosso industriale informatico dove lavora il giovane programmatore Caleb (Domhnall Gleeson), invitato dal padrone a passare un periodo indefinito nella sua villa trasparente immersa nella natura, proprio per testare le capacità cognitive del nuovo prodotto.

Ma non sono le abilità informatiche di Caleb ad interessare Nathan, quanto la sua duttilità umana nello stabilire un contatto con l’androide. Rovesciando l’assunto di un test di Turing, è l’interazione cosciente che deve manifestarsi tra i due soggetti, ovvero perdere per strada la percezione che l’interlocutore sia un robot, facendo esplodere tutte le conseguenze della sfera emotiva.

Garland si serve di una serie di appigli legati al disegno e alla trasfigurazione artistica, come succedeva per i ragazzi di Never Let Me go. Ava disegna alcuni schizzi per visualizzare e archiviare le sensazioni e passa da rappresentazioni astratte ad un livello sempre più figurativo. Allo stesso modo il set accoglie una serie di segni più o meno evidenti, a partire dal quadro N. 5 dipinto da Jackson Pollock nel 1948, sfondo di una dissertazione di Nathan sulla spinta che animava il dripping del pittore nato a Cody; questo nasceva da scelte intenzionali o dall’automatismo? Per Nathan non c’era intenzione ma neanche casualità, al contrario una via di mezzo, un “punctum” emotivo appunto, che è all’origine di qualsiasi soggetto cosciente; quello stesso interstizio che vorrebbe trovare tra l’intenzionalità della programmazione e uno scarto selvaggio capace di scardinarne gli elementi fondativi.

L’altro quadro, visibile nella camera dove è rinchiusa Ava, è quello di Klimt che ritrae la sorella di Wittgenstein, un riferimento ricorrente a partire dal nome dell’azienda, BlueBook, identico ad una delle raccolte di appunti che il filosofo inglese aveva vergato nel primo lustro degli anni ’30, dove sono presenti dissertazioni sul rapporto tra coscienza, pensiero e macchine artificiali.

Le connessioni sono numerose e in qualche modo guidano il percorso di apprendimento dell’androide Ava fino al suo gesto estremo, deliberato ma del tutto disumanizzato, con quella vestizione, molto simile all’immagine Klimtiana, che segna la separazione definitiva dal peso della coscienza, verso una fusione quasi metafisica con la natura.

Ma al netto di questa architettura costruita come un rebus dove ci si può anche divertire a connettere linee e punti, a Garland manca ancora la capacità di racchiudere l’ambiguità di uno stato liminale dentro una sola delle sue immagini geometricamente composte, al punto di doversi servire di espliciti riferimenti pittorici o di un set che sembra mutuato dai progetti di Frank Lloyd Wright, sostituendo di fatto un discorso sullo sguardo e sul pensiero con un dispositivo di tipo visuale. E ancora, manca quel rituale di passaggio che nel rapporto perturbante tra organico e inorganico, rendeva davvero spaventosi l’episodio di Twilight Zone intitolato Ore perdute, la bambola gonfiabile di Kore-eda Hirokazu e il recente video diretto da Tony Kaye per Niia, dove in poco più di cinque minuti si manifesta tutto l’orrore e l’abisso di vedersi improvvisamente visti dal punto di vista degli oggetti e delle “cose” inanimate, aspetto che nel film di Garland proprio non riusciamo a scorgere.

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Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.
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