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Fatherland di Ken Loach

Su soggetto di Trevor Griffiths, Fatherland, film poco conosciuto e mai arrivato nelle sale italiane, è opera di un Loach sempre coerente con il suo credo politico, ma più affrancato da sovrastrutture ideologiche e concentrato sull’identità dei personaggi.
Sguardo critico e dissacrante sulla storia,è un film raccolto, sommesso e severo, sfiora il thriller e la spy story ma va oltre i generi e punta sull’ “eroe etico”, Klaus Drittemann, nome di finzione di Gerulf Pannach, che interpreta sè stesso nel suo unico ruolo cinematografico.
Cantautore di protesta della DDR, persona non gradita in patria,una volta estradato in Occidente dovrà arrendersi al naufragio delle sue illusioni sulla libertà.
Dai locali underground della Berlino spettrale di palazzi grigi e strade buie del socialismo reale, Klaus approda nell’ ’85 a Berlino ovest, fra le luci del Ku’damm. Rifiutata l’estradizione nel ‘68, ora l’ha accettata senza speranze in un visto di rientro, perchè non riesce più a lavorare.Un matrimonio fallito, l’ex moglie membro di partito, lui ancora a rischio di prigione, già scontata per anni, la Stasi che non lo perde di vista, deve lasciare il figlio, erede del suo stesso destino. Klaus aveva sei anni quando Jacob Drittemann, famoso pianista, lo lasciò con la madre al di là del muro. Klaus è della generazione, nata e vissuta nella DDR,che del resto del mondo capì lo spirito solo dopo il novembre ’89, e non furono sempre belle scoperte. Lui è in anticipo di quattro anni, e la sua dissidenza deve solo cambiare indirizzo: da Stalin/Honecker  ad Adenauer e NATO, da Stasi a CIA, da “sorveglianza” a Est a “paranoia” ad Ovest.
Cooptato come musicista di talento e caso politico da sfruttare per la pubblicità da una casa discografica, fra conferenze stampa e feste frequentate da quelli che contano, incontra Rainer Schiff, una storia simile alla sua,che gli dirà: “L’occidente non ha bisogno di repressione, si ottengono miracoli anche solo con la seduzione. Siamo ben lungi dall’essere liberi, e appena farai un po’ di soldi ti faranno rientrare, la valuta conta più dell’ideologia”.
“Tolleranza repressiva” è l’ossimoro che Loach conia per quel mondo che Klaus ha immaginato libero. Stalinismo non è socialismo, capitalismo non è libertà, il sogno è morto in Spagna.
Questi i pensieri dell’uomo mentre cammina lungo il muro e guarda da una torretta, dall’altra parte, i palazzi con le finestre murate,i drappelli di Vopos mescolati ai passanti, una vita accettata come normale, ma che di notte diventa incubo di cani latranti che inseguono chi tenta di scalare il muro. Con Klaus in cerca del padre scomparso il set si trasferisce bruscamente in Inghilterra. Entra in scena Emma (Fabienne Babe) giornalista che ha solide ragioni per cercarlo anche lei, ha scoperto il rifugio clandestino dell’uomo a Cambridge e la sua nuova identità e la vicenda sembra tingersi di noir, ma lo sfondo resta storico. Il segreto della vita di Jacob,le ragioni della sua scelta di lasciare patria e famiglia, tutto diventa chiaro. Gli orrori di un lungo pezzo di storia europea appaiono in filigrana nella complessa ricostruzione che segue. L’incontro di padre e figlio fa da cerniera fra le due parti e le riconduce a solida unità. Nell’unico e ultimo incontro, pur restando nell’anonimato, Klaus recupera e riconosce nella figura paterna le ragioni di quelle che sono anche le sue scelte. Le parole di un antico saggio, Meng-tze, 600 a.C., sono quelle che Jacob lascia in eredità a Klaus. “Esiste solo il potere, chi ce l’ha lo sa bene, gli altri lo devono imparare. Chi è sotto il giogo sorregge chi comanda, chi comanda è sorretto da chi sta sotto”. Ma capire, forse solo questo conta, sembra dire Jacob: “Gli americani hanno sempre avuto problemi a riconoscere il loro debito al Terzo Reich.Devi imparare a vivere in Inghilterra per capire la vera natura dell’ironia…” Il blues graffiante di Pannach, contrappuntato da sezioni da Britten, Bartok e Purcell, crea un fitto tessuto di immagini sonore fino ai titoli di coda,che scorrono su Singing the blues in red …com’era rossa la speranza fra le rovine dove oggi sono i grandi palazzi…

Buona edizione questa di Rarovideo per quanto riguarda la qualità audio/video e senz’altro per aver recuperato un film di Loach altrimenti poco visibile. La sezione extra è davvero al minimo sindacale e contiene solamente un’intervista al giornalista Boris Sollazzo che parla di Fatherland come di un’autentica gemma nella cinematografia del regista, sottolineadone la diversità rispetto al resto dell’opera. Un film che, pur partendo da una storia fortemente connotata politicamente, si libera dai vincoli dell’ideologia per recuperare una scrittura visiva ironica ed efficace, molto attenta al versante umano dei personaggi.

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