domenica, Dicembre 22, 2024

Festival internazionale di Cinema e Donne 2014 – Bobô di Inês Oliveira: la recensione

Inês Oliveira parlando del suo primo lungometraggio uscito nel 2009, Cinerama, raccontava durante un’intervista della necessità di lavorare sull’amnesia, l’immagine del vuoto e sopratutto su un’idea di narrazione che si staccasse dalla rappresentazione televisiva ormai assimilata come dominante e per la Oliveira sostanzialmente “teatrale”, verso quindi un cinema ellittico ricco di interferenze atemporali. Cinerama, per la sua autrice, era un film che si “auto-distruggeva progressivamente, come una pellicola che brucia“.

Visto recentemente a Indie Lisboa e inserito nella sezione Discovery dell’appena concluso Toronto Film Festival, Bobô, il secondo lungometraggio di questa promettentissima cineasta Portoghese, mantiene la forma enigmatica e misteriosa della prima opera attraverso una narrazione solo apparentemente più chiara e tradizionale. Se l’incipit è una sequenza di sogno, la visione di un guerriero vestito con le piume e i colori di una tradizione rituale,  questo irrompe nella vita della protagonista con una marcatura onirica e simbolica più riconoscibile rispetto ai primi vorticosi venti minuti di Cinerama, la relazione con lo stato di veglia è ancora più ambigua rispetto al film precedente, perchè il valore dei simboli acquisisce un significato  premonitore, ma altre volte si confonde con il delinearsi dei confini domestici come luoghi della memoria.

Sofia (Paula Garcia) vive da sola nel vecchio appartamento appartenuto alla famiglia; un giorno, d’improvviso, e quasi contemporaneamente al sogno di cui si diceva,  Mariama (Aissatu Indjai) suona alla porta, è una giovane ragazza Guineana arrivata per aiutare la donna nei lavori di casa e pagata da sua madre. La reazione di Sofia è inizialmente di rifiuto, la accoglierà comunque mantenendo una distanza che è quella di una percezione privata dello spazio. Nella casa c’è una stanza, quella del figlio probabilmente, un luogo quasi separato dalla realtà dove quello che presumiamo sia il presente è in realtà un trucco della memoria e un percorso di riconoscimento che Sofia dovrà compiere attraverso un viaggio terapeutico e sciamanico.

La storia apolide del Portogallo, come nel cinema di Miguel Gomes, viene osservata attraverso una lente prismatica, un’agnizione prima di tutto intima e subito dopo sincretica, la Oliveira procede infatti per improvvise rotture, crettando letteralmente lo spazio dato, non è solo l’ingresso nel sogno, da cui sembra possibile uscire e quindi separare uno stato dall’altro, ma è per esempio l’arrivo di Bobô, la piccola sorella di Mariama a cui Sofia si legherà gradualmente, oppure il lungo inserto della festa nella comunità Guineana, una sequenza prodigiosa dove la Oliveira libera letteralmente il film nel ritmo tribale e i livelli di realtà sono molteplici; prima di tutto il contatto di Sofia con una cultura lontana e vicina allo stesso tempo, da una prospettiva non giudicante, ma immersa nei suoni e nei colori di quell’appartenenza, ma anche la percezione di un sistema gerarchico ancestrale e irraggiungibile; comprendiamo infatti che Bobô sarà destinata alla mutilazione genitale da fugaci segni visionari, tra cui una bevanda densa come il sangue che la bimba beve alla festa.

Con un procedimento non dissimile, la Oliveira conduce Sofia da uno sciamano, uno spazio sacro, fatto di simboli che non le sono comprensibili ma che in qualche modo imbastiscono il filo di una narrazione interiore parallela, la perdita di una persona cara sarà identificata dal veggente come una forza che sta trascinando la donna nello spazio occupato dai morti, qualcosa di negativo che invece di mettere in comunicazione i due mondi rischia di far collassare uno dei due; una caratteristica che viene diretta da Cinerama, anche quello, misterioso racconto di fantasmi negli spazi di un contesto industriale senza più alcuna funzione se non quella della sedimentazione residuale di macerie.

Con chi sta comunicando Sofia? chi alberga i suoi sogni? Il fratello o il figlio?

Quando entrerà nel suo stesso sogno, pugnalando a morte la figura rituale che la minaccia tutte le notti, scoprirà sotto la maschera tradizionale un volto familiare.

La fuga di Mariama dalla comunità e la protezione che Bobô riceve da Sofia coincideranno con il nuovo incontro della donna con sua madre, anche in questo caso attraverso una vera e propria manifestazione nello spazio casalingo, come in un sogno si ritroveranno nella stanza del figlio, o forse di “un” figlio, quello che le unisce.

Ciò che invece le separa è l’intreccio degli animali di cartone e degli acchiappasogni che si appendono nelle camere dei bambini, la madre con un movimento lento e impacciato, allontana piano piano quella barriera leggera, e abbraccia la figlia in una commuovente sequenza di riconoscimento del dolore.

Inês Oliveira con Bobô realizza un’opera interessante e enigmatica come la precedente, ma facendo coincidere lo spazio simbolico con quello interiore, rendendo ambiguo il tempo e la prassi del racconto e dedicandosi ancora una volta ad un suggestivo cinema dell’amnesia.

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.

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