Un gruppo di campeggiatori ogni anno affolla una zona isolata della regione caspica per un campionato di aquiloni; si accampano come possono e si preparano alla gara montando i telai e sistemando l’occorrente con luci, accorgimenti, strutture più o meno convenzionali.
Un gruppo di questi, persa la strada per arrivare al camping, chiede aiuto a tre uomini che gestiscono un ristorante sgangherato ubicato a pochi passi dalla zona del campionato, ai margini della foresta.
I tre cuochi, tra cui un sorprendente Babak Karimi (Una separazione, e Le passè di Asghar Farhadi), maneggiano carne putrescente e offrono il loro aiuto ai ragazzi, solo dopo averli assaliti con una serie di domande su come hanno valicato l’area recintata, chiedendo loro un documento di identità e facendosi infine strappare la promessa di tornare a mangiare nel loro ristorante per l’ora di pranzo.
Inizia da qui un lunghissimo peregrinare dei cuochi, con Babak Karimi che tiene costantemente in mano un sacco di stoffa pieno di carne marcia e grondante sangue, alla ricerca di altra da macinare per il ristorante.
I ragazzi sulla sponda del fiume, luogo dove hanno sistemato le loro tende, vengono filmati attraverso il racconto delle loro storie personali e senza un’apparente connessione; nel frattempo, quando i due cuochi incroceranno il loro percorso, cercheranno in ogni modo e con ogni espediente di portarli in una zona isolata della foresta.
Due gemelli bizzarri, uno senza il braccio destro, l’altro senza il sinistro, si aggirano per il bosco tenendo in mano un telaio di legno dove sono appesi alcuni volatili.
Dopo il sorprendente debutto del 2009 “Ashkan, the Charmed Ring and Other Stories“, l’iraniano Shahram Mokri realizza il suo secondo lungometraggio tornando a lavorare sulla complessità di micro-storie soggettive, apparentemente slegate tra di loro, ma che modificano il tempo di un’altra narrazione rispetto a quella esplicitata, quasi fossero parte di un sistema caotico che si rivela a poco a poco, con la forza allusiva della parola.
Fish & Cat fa ancora un passo avanti, sono 134 minuti girati in digitale e in un solo take, un lungo piano sequenza in costante movimento e che per lo stesso Mokri, come ha raccontato in un’intervista rilasciata a Houshang Golmakani per Film Magazin, rompe con le consuetudini di certo cinema della durata, mandando avanti e indietro il tempo come se si trattasse di un paradosso Escheriano.
E in effetti, in questo difficile e stratificatissimo film, la camera va avanti e indietro percorrendo uno spazio circolare che include tutta la zona del campeggio, il ristorante dei tre inquietanti cuochi, e la foresta che circonda tutto; mentre quindi Mokri mantiene l’unità tra tempo e inquadratura, muovendosi in modo prodigioso in questa porzione di spazio e incontrando via via i personaggi e i loro percorsi, il tempo non sembra andare in un’unica direzione; invece di scolpirlo, Tarkovskijanamente all’interno di un blocco che procede in avanti con il movimento della camera, lo stratifica, lo interpreta come fosse una curvatura, sovrappone istanti provenienti da falde diverse, torna indietro e va avanti; ce ne accorgiamo in alcuni momenti in cui le parole di alcuni personaggi vengono ripetute a distanza, come fossero ascoltate da un’angolatura auditiva diversa, ma che ovviamente ci rivelano come il tempo, in qualche modo e nonostante la continuità del piano sequenza, sia tornato, con un salto, a qualche istante prima.
Con un ambientazione che ricorda quella di alcuni slasher Movie, il film di Mokri è uno stimolante e stratificato racconto, dove alla frammentazione del cinema Horror occidentale, fatto di piccoli episodi, giustapposti in modo frequentativo fino ad arrivare ad un climax, sostituisce la complessità di un universo narrativo fatto di più tempi, ognuno dei quali contiene la forza propulsiva di un racconto.
La ragazza vestita di rosso, abbandonata sotto un albero con uno dei tre cuochi che sta per ucciderla, è forse già morta, è un fantasma che ri-vede se stessa e ci racconta con la forza della parola, quello che non vedremo, come se quel luogo fosse intriso di più falde temporali, legate alle storie di tutte le persone che lo hanno attraversato.
Film geniale, filosofico e con un’attenzione ai simboli di una tradizione popolare che non siamo in grado di decriptare a fondo, segni che non si sovrappongono mai in modo forzato all’immagine, ma che emergono da un tempo concepito tridimensionalmente.