Sono più di uno gli incidenti che si verificano nell’ultimo film di Ruben Östlund, oltre alla valanga controllata che apre la prima crepa all’interno del ménage familiare di Tomas (Johannes Kuhnke) e Ebba (Lisa Loven Kongsli), ci sono altre spaccature della superficie ad indicare la formazione di un sentimento di inadeguatezza rispetto al proprio ruolo. È un processo chiarissimo e che non rinuncia mai ad una prospettiva distante rispetto agli eventi, tanto da mettere in discussione il rigore ostentato del cineasta svedese.
Il falso visibile della prima valanga, quella che si abbatte improvvisamente sulla terrazza del complesso Les Arcs, nido per famiglie costruito negli anni sessanta sopra Bourg-Saint-Maurice nella regione del Rodano-Alpi, ha una consistenza fantasmatica, è un’immagine nell’immagine filmata nella Columbia Britannica, post prodotta al posto di un grande green screen allestito per la ricostruzione del ristorante, filmato in studio a Göteborg. Al di là delle occorrenze tecniche, questa distanza tra i corpi e il disastro, imposta visibilmente sin da subito una freddezza controllatissima del punto di vista, quasi si trattasse di un acquario Hanekiano la cui crudeltà anteposta all’immagine viene apparentemente mitigata dall’andamento umoristico che ha quasi sempre origine da questo scarto della visione di cui dicevamo.
Östlund sceglie quel tipo di prospettiva entomologica disinteressata alla vicinanza emotiva con i corpi, e osserva il disgregarsi dell’equilibrio famigliare con la fissità che sollecita la presenza del fuori campo solo per il taglio dell’inquadratura, quasi mai per stabilire una relazione di attesa rispetto al gesto e allo sguardo, ma al contrario svuotando e riempiendo lo spazio entro i margini stessi del mondo filmato, quasi a racchiuderne tutto il senso in una cornice.
Anche per questo, esattamente come succede nel cinema di Roy Andersson, l’elemento umoristico è una conseguenza di questa relazione, quasi vignettistica, tra il movimento dei corpi nell’inquadratura, basta pensare alla fuga di Tomas al momento dell’impatto nevoso, la cui goffaggine nell’arrancare viene esasperata dalla fissità illusoriamente oggettiva del punto di vista.
Tutti gli altri incidenti, allo stesso modo, anche se di polarità opposta, lasciano fuori qualsiasi trauma, a partire dal recupero di Ebba presumibilmente bloccata in mezzo alla neve per una caduta, dove il punto di vista dei bambini lasciati ad aspettare in mezzo alla tormenta diventa uno spazio bianco, la cui opacità sembra generata dall’impossibilità di spingersi oltre la superficie del visibile; in questo breve bozzetto tra i bozzetti non è chiaro se l’improvvisa scomparsa della donna sia una messa in scena o meno, pensata dalla coppia per ristabilire l’equilibrio dei ruoli famigliari alla deriva dopo il gesto di abbandono istintivo di fronte al pericolo da parte di Tomas; la consueta goffaggine dell’uomo, l’impenetrabile tranquillità di Ebba e la distanza “comica” oltre la quale Östlund non è interessato a spingersi più che sospendere il senso, mantengono quella cecità del tutto cinica esplicitata poco prima dalla stessa Ebba quando in piedi ad osservare il marito che piange, mette in dubbio che le lacrime coperte dalle mani sul volto siano vere, salvo poi stabilire nuovamente la stessa distanza nel momento in cui l’agnizione diventerà un abbraccio collettivo, una verità emotiva tenuta a distanza di sicurezza dallo sguardo di Östlund.
È un’impenetrabilità fastidiosa ed esibita come si diceva, che non cambia mai modalità lungo tutto il film tanto da lasciarci inerti, anche quando dovrebbe mostrarci la sostanza di questa alienazione.
Non si tratta di negare la precisione con cui il piccolo teatro di relazioni quotidiane viene mostrato attraverso piccoli strappi, tra cui quelli più convincenti che si verificano in tutte le sequenze dove sono coinvolti i due bambini della coppia, gli unici probabilmente in grado di cortocircuitare i rituali di famiglia, ma al contrario di evidenziare l’uniformità di questa stessa fedeltà rappresentativa, quasi mai fuori da quello schema impostato sin dall’inizio sulla distanza analitica attraverso la quale dovremmo supporre di aver scorto ciò che è sfuggito al controllo di Östlund.
Più che l’elaborazione di una serie di reazioni a catena innescate da una calamità improvvisa, Forza Maggiore ci è sembrato un film tragicamente arenato nello spazio immobile di un trauma rimosso, quell’impossibilità di riconoscersi di cui parla Tomas nel suo sfogo più estremo, a testimoniare la distanza tra corpo e disastro, macchina da presa e mondo.