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Future Reloaded a Venezia 70: un po’ di possibile, altrimenti soffoco

Alberto Barbera e Stefano Francia di Ceglie hanno chiesto a 70 registi internazionali di realizzare un cortometraggio per i settantanni della mostra, della durata tra i 60 e i 90 secondi; tema: il futuro del cinema

Il possibile non preesiste, è creato dall’evento. È una questione di vita. L’evento crea una nuova esistenza, produce una nuova soggettività” (Jacques Derrida)

Un incredibile Paul Schrader nel segmento realizzato per il progetto Future Reloaded si infila un casco per strada come se dovesse affrontare un qualsiasi sport estremo e si avvia a camminare tra la gente; imbracato con una serie di bracci estensibili e con una steadycam leggera si auto-riprende grazie almeno ad una decina di Go-pro tutte puntate su di lui e sistemate su questa incredibile protesi.

E il futuro del cinema per Schrader è evidentemente stimolante e pericoloso come uno sport estremo, un pericolo assoluto, come il “futuro anteriore”: il fermento di una tecnologia instabile ha definitivamente sostituito l’idea di cinema che abbiamo sempre avuto o che credevamo di aver afferrato con qualcosa di indefinito che muta costantemente prospettive, dispositivi, schermi, condizioni della fruizione, sguardo, in uno scenario vorticoso che sembra più vicino al 1913, dice sempre Schrader, che al 2013.

È una breve e densissima dissertazione sull’instabilità e la volatilità dello sguardo che dialoga a distanza con almeno altri quattro segmenti del bel lavoro collettivo ideato e voluto da Alberto Barbera insieme a Stefano di Francia Celle, ma che innerva tutti i settanta cortometraggi del progetto con la stessa feconda incertezza.

Se l’idea non sembra, sulla carta, molto dissimile dai numerosi film collettivi a scopo celebrativo, uno per tutti il progetto Chacun son cinéma, ideato e prodotto da Gilles Jacob nel 2007 per festeggiare i sessant’anni del Festival di Cannes, il risultato qui va oltre il settantesimo compleanno della Mostra del Cinema di Venezia per una mancanza, positiva, di restrizioni sul formato, il concetto, l’idea, tanto che si registra una sotterranea comunanza, anche negli episodi meno riusciti o più semplicemente meno amati da chi scrive, come se di fronte ad una transizione epocale, per come la definisce Schrader, si fosse colti da un misto di ansia ed eccitazione per le possibilità aperte dai nuovi formati.

Francis Ford Coppola, attraverso il frammento di James Franco parla del desiderio che la democratizzazione digitale permetta il prima possibile di far cinema  a chi non lo hai mai fatto professionalmente, mentre Jia Zhang-Ke mostra un proliferare di schermi nella cina iper-globale con un misto, assolutamente non codificabile, di stupore, emozione, terrore.

La stessa paura di Atom Egoyan di fronte ai video realizzati con il suo Smartphone, in un’immagine quasi Vermeeriana, vediamo una mostra dedicata al fotografo Anton Corbjin, una soggettiva che arriva sino all’immagine di una farfalla e che sembra quella mano catodica che cerca di toccarci dai frammenti VHS del bellissimo Exotica, dove le parti in dialogo, come in tutto il cinema dell’autore Canadese, sono quell’interstizio tra corpo e dispositivo, tra immagine pensata e sguardo vissuto, tra memoria e falsificazione.

Per Bernardo Bertolucci l’immagine è all’altezza delle ruote della sua sedia a rotelle che avanza nonostante il dissesto delle strade romane, forse una go-pro ravvicinata, la miniaturizzazione dell’occhio che può cogliere un libero movimento senza il legame con un monitor, ma nonostante questo assolutamente personale, intimo, quasi diaristico. E sono proprio i frammenti di un diario di viaggio verso una meta indistinta che sembrano animare il Kafka di Reitz immaginato tra gli schermi Lcd di un Megastore mentre Athina Rachel Tsangari colloca due vecchi proiettori 35mm sulla terrazza di un’isoletta presumibilmente Greca, inventandosi un dialogo meccanico fatto di codici in seno al suo cinema performativo, mentre le macchine proiettano verso l’orizzonte in attesa di uno schermo o forse di qualcuno che dall’altra parte avvisti un qualsiasi raggio verde.

Immagine di un movimento emozionale qualsiasi sia il mezzo, quello di Salvatore Mereu, che filma sul Corrasi e incontra Peppeddu Cuccu, suo nipote gli avvicina un cellulare e gli fa vedere una sequenza di Banditi ad Orgosolo di Vittorio de Seta: “Questo siete voi“.

C’è una ricerca di intimità attraverso la portabilità dei mezzi che viene colta anche da Kim Ki Duk con l’effetto dello Zoom digitale che avevamo rilevato anche nel suo ritorno a Venezia, nel 2012, qui filma sua madre in un piccolo ritratto intimo di commovente semplicità; a rovescio, Michele Placido, anche se parla della difficoltà di emergere per i giovani talenti, guarda con molto affetto alla figlia, con una piccola confessione sulle note di We Will Save the show, il singolo di Viola estratto dal suo full lenght più recente.

E ancora, il piccolo bellissimo film girato in famiglia da Tsukamoto, un kaiju eiga fatto di cartone, niente passo-uno, neanche cinema d’animazione ma una prossimità del mezzo digitale al gesto del gioco, a quel costruire e distruggere l’evento che scopriamo da bambini quando immaginiamo un teatro di guerra con gli oggetti. Una disperata ricerca di flagranza in fondo,  che risuona in due tra gli episodi più intensi di Future Reloaded, il volto e lo sguardo in camera di una ragazza nel breve film di Benoît Jacquot, quasi a suggerirci “Le Futur est femme” mentre  nel passaggio dal bianconero al colore, l’occhio si avvicina inesorabilmente allo stesso volto in lacrime nel bellissimo frammento diretto da Monte Hellman, tracce di una commozione indicibile; il futuro sarà stato….

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Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.
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