Rakhshan Banietemad ha realizzato Tales come film di resistenza e allo stesso tempo rileggendo a distanza la sua lunga attività cinematografica. Stanca del ruolo di controllo assunto in Iran negli ultimi otto anni dalla commissione cinema del ministero della cultura, decide di lavorare liberamente allo sviluppo di una serie di cortometraggi, formato che nel suo paese, esattamente come il documentario, durante gli anni di verifica più serrati e duri, quelli del regime di Ahmadinejad, non era sottoposto agli stessi controlli di un lungometraggio, cosi da consentirle di proseguire la produzione senza nessun tentativo di bloccco da parte del ministero. Con l’intenzione di far vedere il film al pubblico Iraniano, Rakhshan Banietemad collegherà i dieci segmenti che costitutiscono Ghesseha a produzione ultimata e in un momento di allentamento delle politiche di controllo, realizzando il suo primo film di finzione da Khoon bazi (2006) e dopo alcuni anni dedicati alla produzione di documentari.
La cesura nella carriera della Banietemad è una cicatrice visibile nel risultato complessivo di Ghesseha, non solo per l’andamento episodico del film ma anche per la presenza di un videomaker tra i personaggi che assume la posizione dell’enunciatore, quasi a rovesciare il ruolo didascalico del cinema di propaganda, con un semplice quanto diretto indirizzamento verso lo spettatore, segno chiaro della necessità da parte di Rakhshan Banietemad di costruire un processo attivo, che responsabilizzi lo spettatore e che in un certo senso evidenzi la doppia funzione del suo cinema. La Banietemad torna quindi a parlarci d’amore, e di quella mutazione relazionale che coinvolge gli uomini e le donne del suo paese, recuperando i personaggi di alcuni film precedenti senza che questo impedisca la comprensione autonoma dei percorsi narrativi che in Tales si trasformano l’uno dentro l’altro.
Mentre il documentarista realizza un film sulle condizioni dei lavoratori, punta l’obiettivo su Abbas (Mohammadreza Forootan), costretto a fare il tassista suo malgrado, dopo il crollo di tutte le certezze economiche. Durante uno dei suoi viaggi caricherà sul Taxi una donna con in braccio la figlia malata; Abbas riconoscerà la donna come una sua vecchia amica di infanzia, costretta adesso a fare la prostituta. Sarà la madre di Abbas a introdurre un contesto diverso, mentre con l’aiuto di un uomo più istruito di lei, cercherà di far reclamo ad un ufficio del governo per ottenere un pagamento arretrato dal suo ex datore di lavoro che ha dichiarato fallimento tagliando la corda. Il confronto sarà affrontato proprio dall’uomo che la sta aiutando, presente negli stessi uffici governativi per un’ingiustizia che lo riguarda e messo a dura prova da un burocrate attraverso il quale la Banietemad denuncia la deriva morale del precedente governo.
Già da questi due brevi segmenti, il metodo della regista Iraniana indica la composizione di un disegno narrativo complesso capace di sfruttare in modo vitale la struttura episodica del materiale di partenza, superando il rischio frammentazione con un continuo slittamento della centralità dei singoli personaggi e mantenendo la coerenza di un’accordatura polifonica che lega tutte le storie anche trasversalmente. Non si tratta semplicemente di un passaggio testimoniale del racconto, ma di un continuo riposizionamento della centralità soggettiva, basta pensare non solo a come le singole storie affondino le loro radici nel percorso filmografico della Banietemad, in un dialogo a distanza che comprende la storia Iraniana degli ultimi vent’anni, ma anche tra di loro, in un continuo rovesciamento di segni.
Se Mrs. Monshizadeh (Rima Raminfar), direttrice di un centro di accoglienza per donne, cerca di proteggere Nargess dalla violenza del marito che le ha gettato acqua bollente sul volto, la lettera d’amore destinata a Nobar (Fatemeh Motamed Aria) e intercettata dal marito Reza (Farhad Aslani) attiverà una complessa stratificazione di emozioni, che sembrano dialogare da una prospettiva positiva con l’episodio precedente, cosi come l’ultimo segmento, dove Hamed (Peiman Moadi), secondo tassista del film, cacciato dall’università di Ingegneria per le sue posizioni politiche, dialoga con Sarah, una donna che sta scortando una tossica con tendenze suicidali; sulla loro difficile conversazione la Banietemad costruisce una sintesi formidabile su quella difficoltà di amare o di farsi amare, che innerva il tessuto sociale di tutti gli episodi, mostrandoci l’evoluzione di un paese attraverso differenze culturali, economiche, politiche ma tenendo al centro il dialogo tra uomini e donne e mostrando senza alcuna forzatura la tenacia di quest’ultime nel voler diventare il centro di questa stessa trasformazione.
E se la panoramica conclusiva che allinea nuovamente la soggettiva con quella del videomaker potrà sembrare didascalica ad un occhio scettico, nel suo sottolineare le intenzioni politiche mentre ci dice che “nessun film può rimanere in un cassetto“, ci è sembrata un ennesimo segno di apertura linguistica, che allarga il significato della frase dal riferimento alle commissioni di censura alla forma apolide e potenzialmente infinita dello stesso film della cineasta iraniana: nessuna storia può rimanere confinata nel suo universo finzionale, ma contaminata dagli eventi storici e personali, si libera e interagisce con un mondo di possibilità, come quel movimento di macchina che alzandosi dal cavalcavia viene indirizzato verso il nostro sguardo, inserendo una sospensione nella punteggiatura.