martedì, Novembre 5, 2024

Gravity di Alfonso Cuaròn a Venezia 70: la caduta è una resurrezione

La prospettiva della terra osservata dal satellite nell’apertura di Gravity, il nuovo film di Alfonso Cuaròn, non è troppo diversa dall’esperienza di navigazione lato utente, fatta con le soluzioni geospaziali di Google Earth, un’immagine tridimensionale dello spazio dove l’interfaccia simula quello che potrebbe essere il nostro sguardo in una condizione aumentata; senza il bisogno di utilizzare un data-glove tocchiamo l’immagine, la ridimensioniamo, ne modifichiamo l’inclinazione fino a precipitarci dentro con un movimento “tattile” che sostituisce di fatto le potenzialità dell’occhio con la scansione diretta.

Il 3D di Gravity, diciamolo subito, è sorprendente, non perchè sia particolarmente spettacolare nella ricerca di un qualsiasi effetto sorpresa, anzi, al contrario, nelle poche sequenze in cui un detrito, un bullone, un pezzo del satellite in riparazione sfugge dalle mani di Sandra Bullock per fiondarsi contro di noi, viene recuperato sul filo di quel confine tra lo schermo e il nostro sguardo, perchè l’occhio di Cuaròn muove corpi e detriti in quella dimensione che abbiamo appena descritto, e che non ci consente più di distinguere il modo in cui guardavamo un’immagine, anche al cinema, e la sua virtualizzazione attraverso un dispositivo.

La dottoressa Ryan Stone (Sandra Bullock) è alla sua prima missione nello spazio, occupa lo shuttle insieme a Matt Kovalsky (George Clooney) astronauta di lungo corso; durante l’operazione di riparazione di un modulo che li ha portati all’esterno del veicolo, un’imprevista tempesta di detriti li colpirà violentemente, danneggiando irrimediabilmente la navicella e lasciandoli nello spazio libero come unici sopravvisuti della missione. Collegati da un cavo cercheranno di raggiungere un Soyuz russo in un viaggio che dallo spazio profondo porterà Ryan ad una lotta incessante tra assenza e presenza di gravità.

Alfonso Cuaròn ha raccontato di essersi in parte ispirato alla sindrome di Kessler, scenario di simulazione NASA che nella possibilità di aumento dei detriti spaziali in una posizione di bassa orbita terrestre, ipotizza un vero e proprio effetto domino, un incremento che renderebbe impossibile non solo l’esplorazione, ma anche tutta la complessa rete di comunicazioni satellitari.

Su questa idea Cuaròn concepisce un viaggio dell’occhio per certi versi non dissimile da quello del Cinema di Zack Snyder, seguendo una vera e propria “quest” che disintegra ad ogni approdo l’architettura del set, cambiandone l’assetto, la prospettiva e girando lo spazio incluso nei limiti del quadro a 360 gradi; non è semplicemente la conseguenza di un modo di guardare che ha mutato la relazione dell’occhio con le nuove immagini digitali, attraverso l’acquisizione di altri schermi che sostituiscono la palpebra (tablet, smarphone, simulazioni di gioco, tutte le informazioni del globo in tempo reale), ma è forse proprio la resistenza di un altro occhio cinema alla cataratta del dispositivo; se la differenza tra il corpo e l’esterno sembra essersi ridotta con la possibilità di vedersi visti grazie ad un sistema che ci consente di navigare i sistemi di informazione geografica localizzati, fino all’immagine del globo, Cuaròn pensa al collasso di questi due livelli come perdita di qualsiasi coordinata, mettendo al centro il viaggio dell’occhio come ricerca di un appiglio, un oggetto da afferrare, una stazione gravitazionale da conquistare, quando immagini e memorie hanno ormai una forma volatile e fallace; tutti i raccontini di Clooney o le voci che provengono da lontano, raccontano storie quotidiane, il dolore per un affetto perduto, come l’abbaiare dei cani che Ryan imita a bordo del Soyuz russo.

Sorriderà tutta quella critica che non riesce ad immaginarsi la consapevolezza teorica di uno Snyder, un Michael Bay, un Peter Jackson, ma Cuaròn realizza forse il suo film più bello e radicale; un disinnesco dell’occhio globale e un ritorno all’immagine di una terra perduta; la caduta è una resurrezione.

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.

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