venerdì, Novembre 22, 2024

Haftanlage 4614 di Jan Soldat – Berlino 65 – Panorama Dokumente

Ora prendete carta e penna e vi segnate questo nome: Jan Soldat. È un ordine. Nato nell’ex Karl-Marx-Stadt (l’attuale Chemnitz) nel 1984, Jan ha studiato alla prestigiosa scuola di cinema Konrad Wolf di Potsdam-Babelsberg e dal 2010 presenta i suoi cortometraggi alla Berlinale. Ad esempio “Geliebt” (2010), storia di una giovane coppia gay zoofila (i rapporti avvengono con i loro due splendidi cani), “Ein Wochenende in Deutschland” (2013), che documenta gli svaghi da fine settimana di un’altra coppia gay, stavolta anziana, appassionata di rimorchi on line e pratiche sadomaso (spanking über alles), oppure il toccante “Der Unfertige” (2013), ritratto a tutto tondo del commercialista Klaus, minuto e «incompleto» a causa di piccole imperfezioni fisiche, che ha elevato lo schiavismo volontario a stile di vita.

Proprio grazie a Klaus, Jan è venuto a sapere della «prigione» gestita da Knasty e Sir Dennis, un posto dove si possono trascorrere cinque giornate di fila all’insegna di torture, ammanettamenti e altre amene attività molto utili per staccare. A pagamento. Ecco come nasce Haftanlage 4614: da 27 ore di girato all’interno di una galera-vacanze nei dintorni di Berlino.

Rispetto alle produzioni precedenti, Soldat mantiene lo stile spoglio, minimalista (con un sonoro pessimo), le inquadrature fisse in campo medio e l’approccio rigoroso, frontale nei confronti del tema trattato. Haftanlage segna un deciso passo in avanti sia sul fronte della durata – un’ora: gli altri duravano al massimo 45 minuti – sia su quello, fondamentale, dell’empatia. Se “Der Unfertige” comunicava ancora un senso di exploitation e guardonismo, qui l’occhio del documentarista si pone con successo sullo stesso piano dei soggetti filmati – internati e guardiani – riuscendo a strappare brevi interviste illuminanti e soprattutto a non influenzare procedure, comportamenti, atmosfera. Inoltre, malgrado possa sembrare assurdo o stridente, in Haftanlage 4614 vi sono anche momenti di umorismo e vera tenerezza. Tutti da scoprire.

Il campo di osservazione di Jan Soldat è chiaro, e per certi versi non molto distante dall’universo documentaristico di Ulrich Seidl (si pensi a “Tierische Liebe”, a “Im Keller”). Lo scarto, enorme, sta nella rinuncia da parte di Soldat a inscenare alcunché – eccezion fatta per le interviste con la voce fuori campo. Il suo è il grado zero dell’osservazione, la videocamera digitale piazzata e abbandonata, l’immersione totale e acritica in un mondo: quello delle pratiche «estreme», o meglio di certe nicchie erotiche che trovano spazio in Germania. Un microverso troppo spesso giudicato nel bene o nel male, celebrato con la bava alla bocca (vedi le sfumature), ridicolizzato con disprezzo o più spesso fruito di nascosto. I piccoli film di Soldat, da contro, sono tranci di realtà alla luce del sole. Sono il risultato di un processo lento, graduale, di conquista di fiducia. Senza la quale, per dirne una, Joshua Oppenheimer non avrebbe mai potuto girare “The Act of Killing”. Dietro alle immagini apparentemente amatoriali dei film di Jan Soldat c’è la stoffa di quello che potrebbe diventare un grande documentarista.

Simone Aglan-Buttazzi
Simone Aglan-Buttazzi
Simone Aglan-Buttazzi è nato a Bologna nel 1976. Vive in Germania. Dal 2002 lavora in campo editoriale come traduttore (dal tedesco e dall'inglese). Studia polonistica alla Humboldt. Ha un blog intitolato Orecchie trovate nei prati

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