Quasi centocinquanta film all’attivo, venticinque presenze che fanno di lui il recordman tra i registi berlinalizi, cinquant’anni di carriera cinematografica e di assoluto protagonismo nel dibattito tedesco sui diritti lgbt. Rosa von Praunheim, ormai prossimo ai 75 anni e ancora in forma smagliante (ipocondria nonostante), è una leggenda vivente.
Poco ma sicuro, il suo ultimo film Härte non entrerà nella rosa dei suoi titoli memorabili, anzi, allo stato attuale delle cose serve solo a far numero e a segnare un – parziale – ritorno alla forma racconto, dopo interi decenni dediti esclusivamente al documentario. Un aspetto, questo del Praunheim documentarista, che abbiamo già sviscerato negli anni, di Berlinale in Berlinale, qui su indie-eye.
Parziale, questo ritorno alla narrazione, in quanto il regista sceglie una soluzione mista che ricorda il documentario vincitore del premio del pubblico alla Berlinale 64, “Der Kreis” di Stefan Haupt: un po’ messa in scena, un po’ «teste parlanti». Ma se per Haupt si trattò di una scelta obbligata per esaurimento del budget, qui Praunheim fa sul serio e pianifica le riprese in modo da montare le interviste, a colori, dei protagonisti della storia, insieme a sequenze, in bianco e nero, interpretate da attori professionisti.
La storia (al solito vera, verissima) è quella di Andreas Marquardt, ex campione mondiale di arti marziali con un passato di delinquenza e molti anni trascorsi al fresco. La sua specialità al di fuori del karate: lo sfruttamento della prostituzione. Praunheim sceglie quindi di avvicinare questo eterissimo figuro che ora insegna l’arte del combattimento in una palestra di Neukölln, il quartiere più facinoroso di Berlino, allenando sia cristiani maturi, sia fringuelli imberbi. Un avvicinamento facilitato dal libro di memorie, anch’esso intitolato Härte (‘durezza’), che Marquardt ha pubblicato nel 2006 insieme a un ghost d’eccezione: Jürgen Lemke, famoso per aver dato alle stampe, nel 1989, l’unico libro a tematica omosessuale mai apparso sotto la DDR, il prezioso “Ganz normal anders”. E fino a qui, tutto bene.
La strategia di Praunheim è astuta: raccontare una storia vera, eterissima anzi machista, tutt’altro che edificante o politicamente corretta, mettendoci il proprio nome, quello di Lemke e scegliendo come attore principale l’Hanno Koffler co-protagonista dell’orrido “Freier Fall” (2013) di Stephan Lacant, forse il film schwul più popolare degli ultimi anni, noto anche all’estero. Tradotto in termini biechi, Praunheim punta a un corto circuito lungo la faglia dell’orientamento sessuale, in modo da neutralizzare gli aspetti più insopportabili della figura di Marquardt. Figura peraltro non priva di fragilità, a cominciare dalle numerose molestie sessuali subìte dalla madre in tenera età, che lo scombussolarono ben bene. Su questo aspetto vuole far perno Praunheim, al fine di sfornare un nuovo film scandalo… etero, stavolta.
Ebbene, epic fail. Chi conosce Rosa von Praunheim sa che da lui non ci si può aspettare raffinatezze o ciak kubrickiani, ma in questo caso la resa finale, soprattutto delle parti «inscenate», è davvero pietosa. A cominciare dalla qualità delle immagini digitali, con dei pixel grossi così, passando per una «ricostruzione storica» degli anni Settanta che non scansa nemmeno i manifesti elettorali affissi l’anno scorso a Berlino in vista di un referendum. Härte è maldestro, provinciale, brutto. Volgare, anche, più per stile che per soggetto. L’unico che si salva è forse proprio Marquardt, l’uomo tutto d’un pezzo, che dimostra di non aver paura nemmeno della videocamera maneggiata da Rosa. E il pensiero, nostalgico, va ai due sgarrupatissimi film narrativi che Rosa girò a Berlino quarant’anni fa, i “Bettwurst”. Un appello ai selezionatori dei vari festival di cinema lgbt italiani e non: è arrivata l’ora di mettere in cartellone una bella retrospettiva praunheimiana. Meglio se senza Härte.