Argentina, a pochi giorni da capodanno. Un elicottero sorvola una gated community edificata ai margini di una grande area urbana. Dal velivolo un poliziotto si sporge con in mano un megafono e lancia dall’alto ordini e messaggi di allerta rivolti agli abitanti dell’area; di tanto in tanto s’interrompe, per poi cominciare a ripetere più volte:“Test”, dubbioso che il megafono davvero funzioni. D’un tratto, s’intravedono delle colonne di fumo provocate probabilmente da un incendio. L’elicottero devia nella loro direzione col poliziotto che grida nel megafono il divieto di accensione di fuochi nell’area.
In una tenuta sottostante, Carlos (César Bordón), un uomo sui cinquanta, e suo figlio Julián (Julian Zucker) guardano verso l’alto, attratti dal rumore dell’elicottero. Il frastuono provocato dal velivolo copre qualsiasi suono.
Una volta che l’elicottero si è allontanato, i due riprendono a giocare, con Carlos che incespica, si lascia sfuggire la palla, sbaglia i passaggi. Davanti all’incapacità di giocare del padre, Julián, spazientito, calcia via il pallone dicendo al genitore di essere solo un “segaiolo”. Udendo queste parole, Carlos perde il controllo, si scaglia sul ragazzino e, presolo per un orecchio, gli impone di rimangiarsi quell’insulto.
Frattanto, in un fast food della gated community, un giovane giunge davanti al bancone e inspiegabilmente si mette a carponi atteggiandosi a mo’ di cane. Tra gli astanti pietrificati da quello spettacolo, un poliziotto sui cinquant’anni si avvicina al ragazzo e, rassicurandolo, lo afferra per le spalle per poi condurlo via con l’aiuto di Pola (Jonathan Da Rosa), un ventenne recatosi lì con la sua ragazza Tati (Tatiana Gimenez).
Con la messa in scena di questi tentativi più o meno riusciti di porre un freno al caos che minaccia costantemente di irrompere in scene di vita quotidiana ha inizio “Historia del Miedo”, opera prima del ventisettenne Benjamin Naishtat.
Obiettivo di Naishtat è di indagare col suo film il senso di paura che regna, a suo avviso, nell’odierna Argentina delle Gated Communities e delle grandi aree metropolitane, chiedendosi in particolare quale funzione la paura svolga come strumento di controllo sociale.
Il regista – anche autore della sceneggiatura – sostiene che la paura viene innescata dall’impossibilità di imporre alla realtà un ordine conforme all’idea di quotidianità socialmente definita. A sua volta, tale sospensione di coerenza nell’esperire il quotidiano creerebbe nell’individuo sensazioni di disagio, tensione e ansia che ne influenzerebbero negativamente la qualità di vita e le sue aspettative per il futuro, conducendo a manifestazioni di aggressività immotivata, malesseri psicofisici e a una sorta di incapacità decisionale. Da ciò trarrebbero vantaggio i detentori del potere politico, che in ragion di ciò, cercherebbero di amplificare questo senso di insicurezza e precarietà adoperando il mezzo televisivo per bombardare i cittadini con immagini pseudo-erotiche o di violenza e diffondendo notizie volte a ingenerare il panico.
Per trasporre questa tesi in chiave cinematografica, il regista adopera sia a livello formale sia sul piano contenutistico un’estetica del frammento.
A livello formale, tra le inquadrature prevalgono i primi piani e il mezzo busto, rari sono i campi medi; inoltre si fa largo uso della camera a mano. Nel montaggio sono frequenti i tagli di asse. L’illuminazione in alcuni momenti scompare, lasciando il posto al buio. La colonna sonora è composta prevalentemente da rumori e suoni naturali, mancano quasi totalmente musiche.
Sul piano dei contenuti, al principio la linea narrativa è difficilmente identificabile e soltanto con lo svolgersi della storia si accumulano abbastanza conoscenze che, combinate possono far comprendere i rapporti che intercorrono tra i personaggi oltre che la spazialità e la temporalità dell’azione insieme al contesto sociale in cui essa si colloca.
“Historia del Miedo” è senza dubbio un’ottima opera prima. Disturba solo il fatto che più che a un vero e proprio argomentare per immagini si abbia la sensazione di assistere ad un esercizio di regia svolto seguendo un abbecedario da cinematografia sperimentale… In un film in cui l’irrazionale vuole irrompere e imporsi è strano constatare come la struttura argomentativa del filmico sia “linguisticamente” così controllata.