Ciò che propone Petr Zelenka non è una semplice trasposizione cinematografica dell’opera di Dostoevskij, ma una riflessione sul senso dell’esistenza, che passa attraverso il testo dostoevskiano, prende corpo attraverso il mezzo teatrale e si manifesta attraverso quello cinematografico. Una sorta di percorso cross-mediale, come a voler sondare fino in fondo gli statuti comunicativi dell’uomo in una minuziosa ricerca ontologica.
È uno sdoppiamento ideologico ai fini dialettici che ci porta ad affrontare le annose questioni religiose ed esistenziali, come tipico nello scrittore russo, e come già prima i filosofi greci (Socrate, Platone). Ma Dostoevskij non utilizza la faziosa contrapposizione come pretesto per consolidare una propria concezione del mondo, ma al contrario lascia aperti e irrisolti i quesiti che mette in campo.
Ciò su cui sembra maggiormente focalizzarsi l’opera di Zelenka è, non a caso, il dilemma morale e religioso su cui Ivan si interroga e ben raffigura con il famoso racconto nel racconto de “La Leggenda del Grande Inquisitore”. Perché questo (è il caso di dirlo) capolavoro ceco è una messa in abisso di questioni ontologiche, dietro le cui riflessioni meta-testuali nasconde più profonde considerazioni sull’esistenza, la vita e la morte, il bene e il male. Ivan, di fronte agli orrori e alle torture inflitte ai bambini, spesso dagli stessi genitori, matura la convinzione dell’inesistenza di Dio, fino a maturare un approccio nichilista (già prima di Nietzsche) verso la vita e a rinnegare la presenza di un mondo ultraterreno; ingresso al quale, seppur esistesse, si rifiuterebbe di effettuare: «io restituisco il biglietto, […] perché la solidarietà nel peccato, fra gli uomini, io la comprendo e comprendo anche la solidarietà nelle sanzioni, ma non già la solidarietà, nel peccato, con i bambini». Zelenka utilizza sagacemente un aggancio tra il testo messo in scena dalla compagnia teatrale in una vecchia acciaieria polacca dismessa e la realtà in cui si muovono gli attori. Un aggancio rappresentato dalla figura di un responsabile alla sicurezza che assiste allo spettacolo, il quale assume una triplice valenza, come unico spettatore (controcampo alla pièce), come spettatore ideale (il suo dramma personale, per la recente morte del figlio, rende più solida l’immedesimazione) e come incarnazione simbolica del senso cardine del film (intreccio tra realtà e finzione).
I fratelli Karamazov risulta, a tal fine, un perfetto appiglio da cui partire per riproporre la perigliosa e sempiterna visione dualistica dell’esistenza; e molte sono le situazioni speculari, che si muovono tra realtà e finzione: Dmitrij, nel testo di Dostoevskij, è combattuto tra due donne, Katerina Ivanovna e Grusenka, incarnati l’amore sincero e l’amore carnale, e allo stesso modo l’attore che ricopre il ruolo di Dmitrij si vedrà combattuto tra il teatro e il cinema, non volendoci allontanare dal primo ma estremamente sedotto dal secondo; l’interprete della spietata e voluttuosa Grusenka si rivelerà in realtà la più sensibile alla tragica morte del figlio dell’addetto alla sicurezza, trovando però conforto grazie alla visione di uno spettacolo di marionette (il potere sdrammatizzante dello spettacolo); così come corroborante e dall’effetto sdrammatizzante sarà la visione delle prove da parte dello stesso addetto alla sicurezza.
Un dualismo che trova il suo apice in una aporetica immagine finale: le prove dello spettacolo giungono a conclusione, una pioggia improvvisa inonda gli spazi interni della fabbrica. La presenza di un elemento esterno inonda il luogo interno. È la massima espressione di paradosso dualistico. Leggerne un riferimento allo Stalker (oltre al finale, altrettanti i quesiti tra religione e ateismo) e Nostalghia (lo spazio dell’Abbazia di San Galgano) di Tarkovskij non risulta difficile.
Gli argomenti che avanza quest’opera sono quindi tanti. Dall’influenza e corrispondenza tra realtà e finzione, a cui già nel film Amor nello specchio (1999) Salvatore Maira aveva tentato un utilizzo di compenetrazione tra testo, teatro e cinema, fino alla contrapposizione tra visione religiosa e “pensiero euclideo”, tra Alesa e Ivan. Entrambe visioni fallaci, tra “sofferenze invendicate” da parte del Dio e cruenti risvolti alla linea di pensiero nichilista (Smerdjakov arriverà ad uccidere il padre seguendo il pensiero amorale di Ivan).
Una impasse esistenziale a cui l’unica via di fuga sembra la morte. Ma forse altra via c’è, sembra suggerire Zelenka, il vivere a pieno il dramma, comprenderne il senso, farlo proprio, elaborarlo e sdrammatizzarlo. L’ancora di salvezza del teatro, come del cinema, che rinvieranno l’atto estremo dell’unico spettatore, dopo averlo messo davanti alle sue colpe, e per il quale gli attori (egli dice): «stanno recitando solo per me!».