lunedì, Novembre 4, 2024

Il nome del figlio di Francesca Archibugi: la recensione

Le prénom, la commedia scritta da Alex De La Patelliére e Matthieu Delaporte, oltre al passaggio dal palco allo schermo per mano degli stessi due autori francesi, era già stata presentata al pubblico italiano nella versione teatrale diretta da Carlo Buccirosso e intitolata “Signori… Le patè de la maison”. La “Cena tra amici” era la stessa, ma la radice “vaudeville” veniva aggiustata per i tempi del nostro “teatro borghese” recente, quello senza più alcun riferimento storico, anche in relazione alla commedia all’italiana e che ha lasciato il posto ad una combinazione senza identità desunta dal musical, dalla commedia leggera, dalla rivista e da alcuni elementi della fiction televisiva.

Francesca Archibugi riscrive il testo di Delaporte/Patelliére insieme a Francesco Piccolo probabilmente con l’intenzione di allontanarsi dal contesto in cui si muove Buccirosso e anche dalla tradizione francese, recupera la caratterizzazione psicologica della nostra commedia e privilegia le dinamiche di certo cinema generazionale con la vocazione per il racconto corale, tanto da interrompere l’unità di tempo, luogo e azione con un continuo scambio tra presente e passato e spezzando il punto di vista con quello dei bambini, sguardo che nel cinema della regista romana ha sempre avuto un ruolo fondamentale e che ne “Il nome del figlio” assume la funzione di un vedersi improvvisamente visti, un disinnesco improvviso del ruolo, un gioco di simulazione che attraverso l’occhio di un drone giocattolo, mette a nudo lo stesso impianto teatrale.

Semplice e diretta messa in abisso che coinvolge anche alcune forme dell’enunciazione, come il continuo riferimento a testi della letteratura, filtro che si interpone al dialogo e che sostituisce l’esperienza invece di interpretarla, una frattura tra sguardo e parola che fa emergere in superficie la citazione, il frammento apparentemente colto, “superiorità” ermeneutica immediatamente sabotata con uno sberleffo, come nel caso del cane Marx, accoppato con un calcio senza troppi complimenti.

Come ne “Il capitale umano” di Paolo Virzì il tentativo è quello di non cedere alla tentazione di individuare un personaggio chiave, assumendo uno sguardo morale con sincera empatia, ma evitando di allinearsi ad un punto di vista che assolva la funzione narrante, ad eccezione forse del personaggio interpretato da Micaela Ramazzotti, vero e proprio testimone esterno rispetto a quel “consociativismo delle anime” alla base della letale coesione famigliare.

Ma sono semplicemente “intenzioni”, come si diceva, perché mentre nel film del regista livornese questo slittamento avveniva attraverso la destrutturazione dei meccanismi della commedia in quelli del cinema nero, con un interessante utilizzo del fuori campo che disallineava la convergenza del ritratto collettivo, lasciando fuori alcuni elementi e togliendo letteralmente il fiato nel continuo ribaltamento tra “buoni” e “cattivi”, il film della Archibugi cerca di fare lo stesso affidandosi alla battuta più che all’ambivalenza della parola, rischiando così che il didascalismo dei suoi personaggi, fragili, acuti o insopportabili che siano, diventi proprio la zavorra del film, sottoposto a continue agnizioni, dichiarazioni di intenti o di appartenenza, prontamente inabissate nel gioco al massacro tra posture ideologiche e negazioni post-ideologiche, insomma forse si ritorna proprio dalle parti di Buccirosso, al netto dei 5.500 volumi esposti in evidenza.

La giusta distanza che la Archibugi cerca di mantenere, serve probabilmente a rilevare lo sguardo cinico sovrapposto a quello amorevole, senza consentirci di adottare un tono invece di un altro, sopratutto nella messa in scena del teatro privato di un’intera generazione dove il passato è ancora una volta un dialogo a distanza con lo sguardo infantile, non semplicemente un flashback ma un’apertura, sempre nelle intenzioni.

Anche per questo il film viene improvvisamente spazzato via dal parto “en direct” di Micaela Ramazzotti, un frammento di vita che distrugge ruoli e teatro; e il cinema? forse è tutto in questi ultimi minuti.

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.

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