Continua anche quest’anno l’indagine sulla Nuova Hollywood, inaugurata la scorsa edizione, all’interno dell’eponima rassegna del Torino Film Festival, attraverso un’ampia carrellata di titoli noti, meno noti o persi nella memoria. Un modo per ritrovarsi faccia a faccia con alcuni dei più rappresentativi protagonisti di quel momento irripetibile della storia della settima arte americana, quando la crisi costrinse gli Studios a spostare lo sguardo sulla galassia del cinema indipendente, rintracciando nel portato politico e concettuale che l’animava, fatto di per sé straordinario, una possibile fonte d’introito fondante, sia sul rinnovamento come principio propulsivo e sia negli stimoli alimentati dalle diversificazioni personalistico/stilistiche di ogni singolo nome coinvolto. Una contingenza di cause ed effetti, di autorialità e mercato, se così si può dire, che favorì anche autori già rodati ma dallo spirito troppo libero per essere facilmente incasellabili nel modello hollywoodiano. Arthur Penn ne è esempio, essendo attivo già dai ’50, sia in tv che sul grande schermo, col suo peculiare sguardo disincantato e sarcastico, capace di trasformare una pièce teatrale prossima al lacrimevole come Anna Dei Miracoli, in una straordinaria, poco canonica, aggressione emotiva.
Non solo: Penn, già con Furia Selvaggia tracciava le linee della sua personale visione del mito americano, rivedendo dal suo interno il genere stars and stripes per definizione, il western, e muovendo Billy the kid (Paul Newman) in una frontiera molto più sporca, cinica e violenta di quanto potesse emergere dall’epica dello stesso Ford. Le mosse del suo cinema, quindi, trovarono (come per Nichols ad esempio) perfetta sintonia con lo spirito della controcultura che tracimava dalle istanze dei giovani autori provenienti dalle produzioni indipendenti (sì, insomma, da Corman), inserendosi a pieno titolo in quella rivoluzione formale e concettuale. Sono le istanze di un’America che riguarda se stessa, attraverso gli occhi di una generazione che ridiscute, critica e rinnega; che depotenzia il proprio mito in un ottica eversiva, confrontandosi aspramente con i capisaldi della sua stessa storia, osservandola in prospettiva e rileggendola alla luce dell’attualità. E’ il west diventa il luogo del conflitto e non più solo a fuoco ma culturale: il luogo primigenio da cui tutto ebbe inizio; lo spazio storico da rileggere in una prospettiva nuova, demitizzante, la cui eroicità è un falso da smantellare e ricostruire. Il luogo in cui ritrovare le coordinate di quell’atteggiamento prevaricatore, imperialista, che avrebbe battuto la sua politica governativa di lì in poi; trovando nell’eccidio dei nativi quell’autentico peccato originale che alcun battesimo avrebbe mai potuto cancellare; quella pozza di sangue nel mezzo di un mondo incontaminato e selvaggio che nella guerra in Vietnam, ancora in atto, trovava un disperante parallelo. Pellicole come Un Uomo Chiamato Cavallo di Silverstein, Soldato Blu di Nelson, Buffalo Bill E Gli Indiani di Altman, il meraviglioso Corvo Rosso Non Avrai Il Mio Scalpo di Pollack, sono consapevoli, malinconici, atti di dolore, prostrazione e perdono (di autori che, peraltro, tornarono a confrontarsi anche più volte col genere); riconoscimenti ad una civiltà arcaica che nello scontro con la presunta modernità, ebbe a pagare un pegno incommensurabile.
Di quella stagione, quella del cosiddetto anti-western, che di fatto, doppiando a destra sia Peckinpah che Leone, pose fine al genere coi cappelloni e John Wayne, Il Piccolo Grande Uomo è un concentrato di stimoli e segni. Oltre che un’esperienza a suo modo unica: un racconto di formazione ed un epopea picaresca; una satira spietata e grottesca; triste, avvincente e comico; stupido e geniale; splendidamente imperfetto come un’opera d’arte.
All’origine c’è il romanzo di Thomas Berger che già, criticamente, raccontava la frontiera attraverso gli occhi spauriti di Jack Crabb, il bianco che una tribù pellerossa rese orfano ed a cui un’altra diede lui casa, famiglia e nuova vita. Un Forrest Gump di frontiera che tornando, per codardia, alla sua civiltà ne poté osservare discrasie e miserie da una posizione altera, per quanto stralunata, attraverso l’incontro con certi personaggi cardine della storia americana, sino ad arruolarsi tra le file dell’esercito guidato dallo spietato generale Custer, noto cacciatore d’indiani (il titolo originale fa riferimento proprio alla nota battaglia di Little Big Horn, di cui, Jack, nella finzione è l’unico superstite, quando in realtà non ve ne fu alcuno), chiudendo così, simbolicamente nel sangue, non solo con lo scontro tra le due civiltà di cui faceva parte ad un tempo ma con se stesso. In scena è la storia, dietro le quinte è l’attualità di un paese che scopre di rincorrere un’innocenza che non ha mai avuto.
Penn riduce tutto all’essenziale, privilegiando soltanto alcuni dei momenti chiave del romanzo; quelli cioè che permettono lui di smontare archetipi e stereotipi del genere, ora deridendoli, riducendoli a farsa, ora innalzandoli ad accusa e scagliandosi contro gli istituti inviolabili dell’american way of life: Dio, patria e famiglia. Una carrellata di personaggi bislacchi, controversi o sopra le righe come i coniugi Pendrake: lui pastore protestante con fede inviolabile sostenuta con le armi, lei (un’incredibile Faye Dunaway, già Bonnie Parker per Penn in Gangster Story ) ambigua e libertina al punto da divenire, ormai vedova, maitresse di bordello. Con Wild Bill crepuscolare e nevrotico (niente di più distante dall’eroico Gary Cooper de La Conquista Del West di De Mille) ed il suddetto Custer, squinternato e visionario. Jack li lambisce da uomo qualunque alla deriva, troppo distante dalla civiltà dei bianchi, che conosce poco ed apprezza meno, ma mai davvero vicino alla tribù che lo ha adottato, nella quale si sentirà sempre un oggetto estraneo, malgrado l’amore del padre adottivo Cotenna Di Bisonte ed il rispetto che lo circonda.
Hoffman mattatore, spazia in lungo e in largo per l’intera pellicola saltando da uno stato d’animo all’altro (dalla macchietta alla tragedia) come un folletto impazzito; si porta dietro tutte le fragilità emozionali del Ben de Il Laureato, per farle poi deflagrare in ogni direzione possibile, imponendosi, una volta di più, come volto simbolo. Penn da par suo lascia briglia sciolta all’incontenibilità dei suoi attori, facendone uso in funzione di una narrazione eternamente sopra le righe, barocca, carica, stranita, per quanto la statura del suo selvaggio ovest sia minimale, minuscola quasi; il negativo della Monument Valley di fordiana memoria.
I colori si desaturano, si fanno gelidi ed irreali, così come gli stessi costumi da pantomima non mostrano più la storia in sé ma la sua parodia, la sua messinscena: i valori di quella storia non necessitano di ulteriori incensi , vanno sviliti nel ridicolo. Perché ogni qual volta la storia si ammanta di ridicolo, pare dire giustamente Penn, è la ferocia della tragedia che è pronta a venir fuori: il settimo cavalleggeri pare una ciurma di pirati sporca e ubriaca ma quando attacca il mite accampamento sioux, lo fa con inaudita ferocia, senza remore, uccidendo vecchi e bambini indiscriminatamente. E’ qui, però, che la violenza si traduce in lirismo filmico, com’era nelle corde del regista; uno spazio onirico nel cuore di una sequenza realistica; un equilibrio di immagini (mosse, sfocate, aspre) e suono (un silenzio raggelato da cui emerge, in sordina, per contrasto, il fischiettare allegro del Garryowen) e dramma (lo strazio di Jack sprofondato nella neve). Uno di quei momenti tutt’altro che raro nel cinema dei ’70, dalle mani di un autore in stato di grazia.
Il discorso di Penn sul western continuerà col geniale Missouri ma quello sullo smantellamento del mito americano, dei suoi limiti, delle sue idiosincrasie e doppiezze, produrrà ancora opere di straordinaria potenza e poesia (Alice’s Restaurant, Gli Amici Di Georgia) oggi, purtroppo, virtualmente invisibili. Un percorso di cui Il Piccolo Grande Uomo è tappa totalizzante.
Un cinema morale, realmente necessario.