Il poliziotto è marcio di Fernando Di Leo fa parte di quella schiera di film di genere italiani che rientra sotto l’appellativo di “poliziotteschi”. Bisogna però precisare che il regista in questione è stato tra i primi a frequentare – se non addirittura ad istituire – il genere, con il celebre Milano Calibro 9. Con il caso specifico de Il poliziotto è marcio, Di Leo si discosta parzialmente da alcuni luoghi comuni che avevano allontanato, poco a poco, il “poliziottesco” dalla realtà italiana – concentrandosi, più che altro, su di una spettacolarizzazione (violenta o eroica) della figura del commissario della polizia –, realizzando, piuttosto, un film dall’indiscusso impianto realista. Il poliziotto è marcio coglie, infatti, l’occasione per sferrare un duro attacco nei confronti della corruzione delle forze dell’ordine.
Protagonista del film è il commissario Domenico Malacarne, interpretato da Luc Merenda: un poliziotto che nasconde, dietro un’apparenza prestante ed eroica (celata dal volto candido e pulito dell’attore francese), un’anima corrotta e sordida. Una personalità oscura, che viene dovutamente messa in risalto attraverso il confronto con quella del padre, maresciallo dei carabinieri di Milano, in un piccolo distretto periferico. Il padre, a differenza del figlio, non ha mai accettato tangenti, ritagliandosi un’umile ma onorata carriera, considerata dal figlio come un fallimento da non imitare. Il conflitto fra i due verrà, poco alla volta, a galla, e avrà un tragico epilogo quando le indagini dei due si scontreranno irrimediabilmente.
Ne Il poliziotto è marcio non mancano sequenze d’azione tipiche del cinema poliziottesco degli anni Settanta: i roccamboleschi inseguimenti con le “giuliette” per le strade della città – in questo caso, per i Navigli milanesi -; pestaggi scabrosi – con alcune parentesi sinceramente evitabili. Eppure, Di Leo preferisce concentrarsi sui personaggi, sulla loro doppiezza. Il film, infatti, è sostanzialmente una risposta al più celebre Indagine di un cittadino al di sopra di ogni sospetto di Elio Petri. Nell’intervista contenuta negli speciali del Dvd, inffatti, il regista si sofferma più di una volta – e polemicamente – sull’opera “kafkiana” di Petri, accusandola di una pretesa intellettualistica che nulla ha a che vedere con questioni fattuali come quelle della corruzione poliziesca, sottolineando come, in Il poliziotto è marcio, avesse voluto realizzare un’onesta opera polemica, che giungesse schiettamente al nucleo del problema. Una schiettezza già ben rappresentata dalla scelta di un titolo forte, inequivocabile, e che diede non pochi problemi alla distribuzione del film.
Il poliziotto è marcio conta di alcuni ottimi caratteristi, come Richard Conte nella parte del meridionale che, inconsapevolmente, denuncia un incontro tra mafiosi sotto casa – di cui uno è il protetto di Malacarne. Viceversa, viene affidato il ruolo di protagonista all’anonimo Luc Merenda, uno dei tanti “belli” degli anni Settanta usciti dai fotoromanzi. Merenda si cimenta in un campionario assai ristretto di espressioni “da duro” riprese di sana pianta dai vari Merli e Nero. Ma a Di Leo piaceva scommettere su volti poco noti – forse anche per non incappare in budget troppo elevati. Il risultato finale è comunque buono, e dimostra le capacità di Di Leo di emergere da un cinema di genere spesso troppo uguale a se stesso.