Pratica sempre più diffusa, meritevole e spesso necessaria, il crowfunding è servito anche per finanziare un mostro sacro del documentario internazionale, Frederick Wiseman, instancabile ottantacinquenne reduce da National Gallery, 2014, e chissà per quali altre avventure dello sguardo già in partenza.
Ma nessun problema, non saranno ristrettezze di budget per finanziare la cultura a fermare il grande vecchio: “Questa primavera ho capito che non avevo abbastanza soldi per finire il film. C’è solo meno denaro a disposizione di registi, ora.” spiegava con calma, forse calcando la voce su “ora”, a chi lo intervistava lo scorso anno.
Leone d’Oro alla carriera a Venezia71 insieme alla sua preziosa addetta al montaggio Thelma Schoonmaker, di nuovo a Venezia72 Fuori Concorso, Wiseman presenta una carrellata lunga più di tre ore che esplora ogni angolo di Jackson Heights, Queens, New York City, il quartiere di immigrati provenienti da Sud America, Messico, Bangladesh, Pakistan, Afghanistan, India e Cina.
Quartiere che, a ragione e con orgoglio, si definisce “ il posto più multietnico al mondo”, conta 167 lingue parlate, ma la Torre di Babele è un rischio superato, a Jackson Heights ci si capisce molto bene.
Per due mesi, nell’estate ’14, Wiseman ha filmato tutto il filmabile, spinto da quella curiosità che tutto osserva, scandaglia, impreziosisce con il tocco della sua cinepresa che si sofferma dove conta farlo, con la stessa spontanea attrazione e semplicità di linguaggio che ricorda i modi del più grande documentarista del secolo scorso, Joris Ivens.
Nulla nel loro cinema che parli di mirabolanti trasvolate oceaniche a fotografare terre e uomini dai poli all’equatore, sostenuti e finanziati da cordate internazionali e grandi ritorni mediatici.
Non sono i reportages intercontinentali a interessarli (a parte l’impresa di catturare il vento nel deserto della Mongolia che il novantacinquenne Ivens raccontò come una favola in Une histoire de vent, 1988) .
Autentici e disinteressati “segugi della realtà”, il loro esclusivo impegno è stato ed è trovarsi dove succede qualcosa per testimoniare, cercare il giusto equilibrio tra realtà e rappresentazione, sentirsi cineasti e militanti insieme, e finalmente trovare il punto d’intesa perché le due anime vivano di comune accordo.
“Quello che sto cercando di fare è avere uno sguardo alla vita americana contemporanea attraverso le istituzioni. Ogni società ha un dipartimento di polizia. Ogni società ha una qualche forma di istruzione, una qualche forma di trattamento medico, una qualche forma di preservazione della cultura, un po ‘di teatro o di danza” ha detto Wiseman.
Dunque è la vita di queste comunità di immigrati di prima generazione ad interessarlo, e allora li segue nel lavoro, negli incontri di quartiere e di categoria, ascolta le loro proteste, i piccoli drammi quotidiani, partecipa, invisibile, alle manifestazioni della comunità LGBT e condivide la sua lotta contro le discriminazioni. Ma segue anche le feste, prima fra tutte quella dei tifosi della nazionale colombiana, e sembra uno di loro.
L’occhio attraverso l’obiettivo decide quale sia la realtà da osservare, ne reinventa le coordinate rendendole più vere, lo spettatore la percepisce e l’accetta, anche se ne conosce l’artificio.
Nasce così il reportage che il cine-occhio consegna alla Storia. Dalle sale di un Museo famoso alle strade intasate di traffico, da istituti psichiatrici e licei a un’intera città del New England rovesciata sullo schermo, nulla sfugge al segugio della realtà, la vita degli uomini su questo pianeta è un’ immensa torta a più strati. Wiseman ne stacca un pezzetto e lo mastica con gusto.