Mehran Tamadon torna ad analizzare le radici della cultura Islamica Iraniana dopo il suo primo documentario sulla lunga distanza prodotto nel 2009 e intitolato Bassidji. Se in quel caso si avvicinava alla frangia più estrema dei sostenitori della Repubblica Islamica, con “Iranien” cerca un confronto intimo e diretto con una parte di quel sistema religioso e politico, cercando di inventarsi uno spazio eterotopo entro cui dialogare. Dopo anni di tentativi, Tamadon, Iraniano ateo trasferitosi ormai in Francia, riesce a portare alcuni praticanti con le loro famiglie, in una casa di campagna di sua proprietà situata alle porte di Teheran.
Il salotto sarà il luogo dove il regista ospiterà gli uomini a dialogare con lui; le donne, invitate a partecipare senza alcun successo da Tamadon, rimangono nascoste in una stanza adiacente e si dedicano ai figli e alla cucina.
I temi che vengono affrontati sono quelli delle libertà individuali, della separazione tra politica e religione, del ruolo delle donne e della questione del velo, e sopratutto della possibilità che una società migliore possa essere quella basata su principi secolari, un anti-utopia per Tamadon, che includa tutte le culture in un sistema di pensiero e di condivisione apolide e complesso.
Ma per gli osservanti, una società configurata secondo questi principi risulta inaccettabile, il controllo di una realtà difficile da gestire deve essere esercitato con regole molto rigide e sopratutto, lo sguardo e la percezione di qualcosa che offende, come per esempio la vista di un corpo femminile non adeguatamente protetto, verrebbe meno in un contesto di convivenza più aperta.
Mentre Tamadon cerca di argomentare la sua idea di crocevia, i suoi interlocutori si dimostrano molto più abili di lui, servendosi di un sistema logico quasi maieutico che nega la possibilità di rinunciare alle impostazioni della Repubblica Islamica.
Nello spazio di convivenza temporaneo, il regista Franco-Iraniano cerca di ricostruire un contatto materiale con la storia del suo paese, introducendo immagini, testi, l’iconografia del potere e i segni della fede religiosa; rispetto al suo relativismo, le certezze assolute dei sostenitori della Repubblica Islamica delineano un recinto inattaccabile sul piano della conservazione e dell’affermazione di un’identità.
Si verifica allora uno scarto, che è anche quello dello spettatore occidentale medio, imbevuto di cultura laica, uno scarto che non è dissimile dalla relazione con la religione cattolica su temi quali l’aborto, la libertà terapeutica, la scelta della propria fine; Tamadon non trova una soluzione e anche laddove sembrano aprirsi alcuni spiragli, “Iranien” sembra davvero il documento di una sconfitta, l’illusione di un dialogo possibile che non può ancora passare dalla costruzione di uno spazio secolare se non attraverso una semplificazione culturalmente inaccettabile per i sostenitori della Repubblica Islamica.
L’ultima immagine dopo 105 minuti di dialogo, dove Tamadon filma quasi tutto, inclusa la condivisione del cibo, è un viaggio di ritorno in macchina, mentre le luci notturne appaiono come una visione fuori fuoco, la sua voce ci racconta delle difficoltà incontrate per girare il suo film; dopo due mesi gli sarà restituito il passaporto per far ritorno in Francia, con la promessa di non dover tornare una seconda volta in Iran allo scopo di raccogliere ulteriore materiale, in quel caso, la conseguenza potrebbe esser quella di non poter più lasciare liberamente la sua terra.