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Irrawaddy mon amour di Andrea Zambelli, Nicola Grignani e Valeria Testagrossa – Torino Film Festival: la recensione

Myanmar oggi, sponde del fiume Irrawaddy, villaggio di Kyauk Myaung. Malgrado l’ostilità del regime militare e una cultura omofoba che si traduce in violenze domestiche, allontanamenti dal nucleo familiare e in una legislazione sorda all’esistenza stessa delle persone lgbt, Soe Ko e Saing Ko si amano. E vogliono sposarsi. Alla fine lo fanno, per quanto in chiave meramente simbolica, sostenuti dalla vivace comunità omosessuale del paesino e dai monaci buddhisti. Perché l’amore, come il fiume Irrawaddy, travolge tutti. Detto all’italiana citando il blog dell’attivista Cristiana Alicata: non si possono fermare le nuvole.

Sembra un film di finzione, Irrawaddy mon amour, e invece è un documentario che i tre registi Nicola Grignani, Andrea Zambelli e Valeria Testagrossa (gli ultimi due anche direttori della – bella – fotografia) sono andati a girare nell’ex Birmania, folgorati non solo dai luoghi, ma anche dal potenziale politico, e lirico, della vicenda di Soe Ko, Saing Ko & Co. Incantarsi dinanzi alle immagini del film è pressoché inevitabile, così come pensare all’attuale situazione italiana. È un documentario o un ceffone camuffato da commedia ungherese, questo Irrawaddy?

Presentato in concorso a Torino nella sezione Italiana.Doc, il breve ma efficacissimo – e per nulla concitato – lavoro di Zambelli, Grignani e Testagrossa ci introduce pian piano in un mondo distante migliaia di chilometri dove l’omosessualità è ancora apostrofata come il «terzo sesso», i poster in casa dei ragazzi sfoggiano indifferenziatamente Aung San Suu Kyi (pre-elezioni) e Britney Spears, alle feste risuona la versione techno del cranberriesiano Zombie mentre i bimbi si scatenano col Gangnam Style. C’è anche un pezzo d’Italia, in tv: Totti che si fa un selfie sfondo curva mentre gli astanti tengono il viso chino sugli smartphone.

Irrawaddy mon amour è un docu anfibio sulla discriminazione, il coraggio e l’attesa di tempi migliori. Reso ancor più toccante dallo score di Giulio Ciccia e Marco Offredi, il film ha un’evidente valenza metaforica. In Myanmar ci si sposa alla presenza di tre monaci recitando la preghiera dell’acqua così come da noi si usano i registri comunali delle unioni civili. Invece di ripetere l’esperienza italiana di documentari quali Improvvisamente l’inverno scorso (2008) di Gustav Hofer e Luca Ragazzi, scaturito dall’attesa – vana – della conversione in legge dei DICO di prodiana memoria, i tre registi giocano la carta sorniona dell’esotismo, del telefono bianco, dell’impegno civile col telescopio, mentre in Parlamento prosegue l’iter del ddl Cirinnà. Uno spunto di riflessione azzeccato e intelligente, oltretutto confezionato con grazia.

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