Island city di Ruchika Oberoi segue tre storie ambientate a Mumbai. La prima riguarda un uomo di mezza età che vince il “Fun Committee Award”, un premio che gli dà diritto a una giornata all’insegna del divertimento. Lui è piuttosto riluttante, ma è costretto ad accettare. La seconda storia ha inizio con Anil, un dispotico capofamiglia, ricoverato all’ospedale in fin di vita. I suoi cari trovano sollievo comprando un televisore e radunandosi davanti allo schermo per vedere una celebre soap. La terza vicenda coinvolge Aarti, la cui vita è sempre più simile a quella di un automa. Un giorno, però, riceve una lettera e tutto sembra cambiare.
L’oscillare dal registro tragico a quello comico permette all’opera di Ruchika Oberoi di raggiungere un patto con lo spettatore, risucchiato in nel vortice che ingloba l’assurdo assieme ad un’atmosfera dolce-amara.
Miscela che è pronta ad esplodere nell’ironia senza andare completamente segno, ma che fornisce comunque il quadro preciso di una grande e caotica Mumbai, metropoli affollata, grigia e anonima. Le tre storie si legano come in una tempesta di avvenimenti che toccano i vari personaggi.
Ciò che risulta più interessante di questa operazione “taglia e cuci” è l’auto-ironia con la quale la regista cerca di enfatizzare certi luoghi comuni legati al modo di vedere e pensare l’India. Nella seconda storia si ha infatti un riferimemto ben poco velato alla produzione di massa del cinema di Bollywood, scatolone di giocattoli dal quale spesso escono prodotti in serie, come la romanzata soap che i familiari di Anil guardano con apprensione in tv, mentre lui è in coma. Si comprende una certa intenzionalità del gesto, per come tutto viene sottolineato, per strappare qualche risata, fino a raggiungere picchi di puro trash.
Anche l’ultima storia pare inizialmente prendere una piega romantica con tanto di scambio epistolare tra la giovane Aarti e uno sconosciuto ammiratore, per poi cambiare brutalmente tono a favore del dramma, che la vede vittima di un esperimento di mercato, per cui il suo famigerato spasimante altro non era che un computer.
I tre frammenti funzionano abbastanza bene singolarmente, ma rimangono non ben amalgamati nel complesso. La comicità più impattante e destinata brevi frammenti viene vanificata con una mutazione dei toni troppo eclettica e sopratutto con un gestione dei tempi non sempre buona e piena di lungaggini inutili, fattore che disperde e vanifica l’attenzione sullo stesso sottotesto.