Renato De Maria sceglie di raccontare la Storia del nostro paese dal dopoguerra fino alla fine del boom economico attraverso le vicende criminali che lo hanno attraversato. Intorno ai monologhi di sei attori filmati in uno studio-limbo intreccia il percorso criminale di alcuni dei protagonisti della mala attiva nel nord Italia, nelle città di Bologna, Torino e Milano. Le parole, tratte da volumi storici, autobiografie e ricostruzioni giornalistiche sono quelle di Ezio Barbieri, Paolo Casaroli, Horst Fantazzini, Pietro Cavallero, Luciano De Maria e Luciano Lutring, mentre le immagini seguono una traccia documentale attraverso gli archivi luce e il repertorio delle teche rai. Ma a rendere il racconto un romanzo popolare è l’approccio in stile “library” e la scelta di De Maria di ricorrere alla forma combinatoria più vicina al mash-up che al documentario in senso stretto. L’immaginario a cui ricorre è quello del cinema di genere prodotto in Italia tra gli anni sessanta e i settanta la cui flagranza è in certi casi molto più forte e pregnante del materiale d’archivio. Il cinema è quello di Fernando Di Leo, Mario Bava, Duccio Tessari, Marco Bellocchio, Elio Petri fatto reagire con la cronaca del tempo grazie all’ottimo montaggio di Letizia Cadullo, collaboratrice di De Maria a partire da Paz! e montatrice anche per il precedente La Vita Oscena.
Ci sono almeno tre tipi di scrittura nel film di De Maria; la prima è di impostazione fortemente teatrale, con la camera stretta sui volti dei sei attori, illuminati su sfondo nero come uno still life espressionista. Questa traccia, sicuramente ben assemblata in termini di tensione narrativa, orienta in qualche modo le immagini e cerca di estrarre un significato implicito nel cinema di genere di quegli anni, elaborando proprio a partire dal concetto di deriva, una storia d’Italia che era paradossalmente fuori dai canali ufficiali mentre infestava l’anima e la prassi selvaggia dell’artigianato cinematografico schiacciato ai margini e in attesa di un recupero che sarebbe stato probabilmente più dalle parti del culto che del linguaggio politico e documentale.
Tra questi due punti di vista, emerge una terza scrittura più stretta sui suoni di Lele Marchitelli che elabora una colonna sonora sinestetica fatta di glitch, salti improvvisi, ed emersioni di un campionario sonoro tra acustico ed elettronico allontanati progressivamente dal recupero Storico. In questo senso, l’incedere del film, tra le immagini di Milano Calibro 9 e i tagli della Cadullo, è squisitamente musicale; un gioco ritmico che eccede la progressione dei fatti cercando di sintetizzare quell’estetica della violenza che nel cinema di Bava e Di Leo era anche immagine politica, e che in Italian Gangsters si serve dello scambio simbolico per intrecciare una vertigine stimolante tra mitologia e Storia.