Il problema comune a molti dei numerosi documentari prodotti dalla PBS sotto il marchio American Masters è la funzionalità del formato digest che li appiattisce in una dimensione riassuntiva, spesso ricorrendo a materiali di repertorio già diffusi, cercando una riorganizzazione degli stessi attraverso la testimonianza agiografica, collante fragilissimo che riduce al minimo il lavoro di scrittura.
In parte è il metodo che ad un primo approccio costituisce l’asse portante di questo Janis: Little Girl Blue, dedicato alla fugace parabola musicale di Janis Joplin e al suo successo durato solo tre anni, dopo l’exploit al Monterey Pop del 1967 e la fuga dalla nativa Port Arthur, in Texas.
Ma Amy Berg, con un metodo non dissimile da quello di Brett Morgen per il suo film su Kurt Cobain accede al materiale epistolare della Joplin e trasforma quelle immagini sgranatissime recuperate anche da Youtube in un dolente racconto di solitudine e allo stesso tempo in una vitale affermazione del femminile, partendo proprio dall’adolescenza di Janis e dagli episodi che durante gli anni della scuola l’avevano vista come vittima della crudeltà dei compagni di classe. Non è un caso, che tra i produttori del film compaia il nome di Alex Gibney, da sempre interessato a battere vie collaterali e più vicine alla ricerca di una verità intima come motore della Storia. Viene fuori l’immagine di un Texas chiuso, bigotto e conservatore e la spinta di Janis a fare di quella diversità impostale come un marchio, occasione per una mai sopita voglia di riscatto attraverso la creatività, la sessualità e la libertà.
La Berg traccia il percorso artistico della Joplin a partire dal suo trasferimento a San Francisco nel 1963 fino al passaggio dalla scena folk a quella tra blues e psichedelia, in parallelo all’uso di droghe sempre più pesanti e ai successi condivisi insieme ai Big Brother & The Holding Company e The Kozmic Blues Band.
Ma al di là della ricostruzione storico-musicale, sono le lettere e la soggettiva di Janis a prendere il sopravvento e ad offrire un senso più intimo e personale alla sua vicenda artistica.
Per accentuare questo senso di vicinanza, la Berg affida la lettura di alcuni passaggi alla voice over di Chan Marshall (Cat Power) creando quasi una connessione elettiva tra le due musiciste e avvicinando il senso di quelle parole alla nostra sensibilità.
Ne viene fuori un ritratto certamente doloroso come dicevamo, ma allo stesso tempo di indomita forza vitale, recuperata nella combinazione materiale dei documenti; basta solo pensare al modo in cui la Berg monta gli interventi televisivi di Janis quasi a determinarne da una parte la sua incredibile forza ancestrale e dall’altra la difficoltà dell’establishment televisivo statunitense ad interpretare correttamente la sua forza rivoluzionaria e la sua autonomia di pensiero. Tra tutti, c’è un frammento dove Janis è ospite di un talk show condotto dal comico americano Don Adams (noto per il personaggio demenziale dell’agente segreto Maxwell Smart), dove questo si prende gioco del suo universo comunicativo.
L’individualismo della Joplin non viene fuori solamente nel confronto televisivo, negativo o meno, ma anche nel percorso con i musicisti con cui condivide la sua carriera; la Berg si sofferma molto sulla differenza crescente tra le ambizioni di Janis e quelle dei componenti delle sue band, evidenziando il desiderio di intraprendere un nuovo percorso per la sua musica, legato ad un sempre maggior controllo su tutte le fasi compositive e produttive; i due momenti più importanti che la Berg ricostruisce in tal senso, sono gli scontri con la band durante la registrazione di “Summertime”, filmati da D.A. Pennebaker, il cineasta che tra le altre cose ci ha consegnato le immagini del Monterey Pop e che nel film regala una testimonianza diretta; e il ricordo di Kris Kristofferson, i cui ricordi, per lo più incentrati sulle registrazioni di prova di “Me & Bobby McGee”, lasciano intuire cosa sarebbe potuta essere la carriera di Janis fuori dalla struttura comunitaria delle sue band.
Mentre il film si chiude con alcune testimonianze di artisti che si ritengono influenzati dal modo di vivere la musica della Joplin, da Juliette Lewis a Pink, fino ad un’irriconoscibile Melissa Etheridge, rimane l’idea che il lavoro della Berg sia una tenera e sentita elegia sulla solitudine, la stessa che Janis cerca di combattere attraverso quello che ci rimane delle sue lettere e di una vita vissuta con grande intensità e senza sconti.