venerdì, Novembre 22, 2024

Jiaoyou di Tsai Ming Liang a Venezia 70: il futuro, laggiù. Un commiato

E se tutti i film di Tsai Ming Liang fossero in qualche modo collegati tra di loro?
Se queste figure, osservate nella durata di un tempo “reale”, non importa se quello della memoria, di una scheggia di passato o di una falda temporale futura, mantenessero una relazione possibile tra di loro?

Gli appartamenti di The Hole e questo di Stray Dogs, dove la pioggia è già passata e ha lasciato tracce e sedimentazione, la persistenza dei fantasmi nella sala cinematografica di Goodbye Dragon Inn e le donne che compaiono e scompaiono dalla vita del Kang-sheng Lee di Jiaoyou, e sopratutto, l’osservazione di uno spazio visivo che diventa tempo simultaneo. Ci viene in mente Walker, uno dei due cortometraggi realizzati da Tsai Ming Liang prima di Stray Dogs, dove Kang-sheng Lee è un monaco che attraversa un’ipertrofica Hong Kong, due velocità che coesistono, una che accade “nel tempo” e l’altra che appare in movimento come “immagine fugace della coscienza” per prendere in prestito un’espressione del matematico Herman Weyl.

Con una struttura forse ancora più radicale dei suoi primi film e quindi lontano da quel piccolo rischio di formalismo che comprometteva, solo in parte il comunque splendido Visage, Tsai ming Liang disinnesca qualsiasi concetto di tempo narrativo (classico, post-moderno, traccia de-costruzionista, non ha importanza) con una giustapposizione di piani sequenza dove i personaggi occupano lo spazio, o sono intrappolati in una sequenza temporale, con una connessione di cui è difficile stabilire l’interdipendenza. Essi compaiono, abitano uno o più spazi, del loro passato non sappiamo niente, del loro presente osserviamo un accadere che non è ieri, non è domani e forse non è neanche oggi, perchè invece di definire i piani di una realtà empirica oppure mnestica, Tsai Ming Liang sembra avvicinarsi con il suo cinema alle parole del grande maestro Zen Huang Po quando parla della realtà temporale: “È senza inizio, non nata, e indistruttibile. Non può essere compresa in termini di nuovo e vecchio. Non è né corta né lunga, né grande né piccola, in quanto trascende ogni limite, misura, nome, segno o confronto

Una donna si pettina i lunghi capelli mentre i figli dormono, è la lunga sequenza di apertura di Stray Dogs, fa da sfondo una parete nera, striata con delle sedimentazioni che ricordano l’azione corrosiva dell’umidità, il proliferare della muffa, i segni di un incendio; riconosceremo quelle tracce nell’abitazione che compare alla fine del film, dove quasi ogni mobile è infestato dagli stessi strati temporali, persino il vestito della donna che festeggia il compleanno di Kang-sheng Lee insieme ai figli è della stessa sostanza, quasi a indicarci un’anti materia, che divora e modifica oggetti, spazio, corpi con tutta la forza irriducibile e intraducibile del tempo. Lo stesso Kang-sheng Lee, immobilizzato in un’apatia incomunicabile, lo vediamo disteso su un lettino controllato da una serie di congegni elettronici; un solarium? una poltrona per il massaggio rilassante? una strana macchina del tempo?

I corpi tra le rovine di una società già post-globale sono presenti anche in Stray Dogs ma in una forma se si vuole ancora più radicale e radicata, come se facessero parte di un flusso del tutto interiore, che scardina anche in questo caso la retorica del racconto temporale: quel vicolo cieco dentro il cantiere che finisce sulla visione scopica di un orizzonte disegnato, tanto da far pensare ad una finestra finta, un paesaggio iper-reale che si apre dall’angustia di molte camere, sembra il simulacro di una sala Cinematografica, un’immagine del commiato scagliata con-tro di noi, uno schermo che riceve immagini da un non tempo, direttamente nella caverna, semplici riflessi la cui origine risiede oltre il tempo presente di una metropoli in rovina.

Kang-sheng Lee si guadagna da vivere con una serie di espedienti e passa le giornate a reggere cartelloni pubblicitari in mezzo alla velocità urbana per due spiccioli e ad accudire i figli nel modo migliore che può.
Taipei è tutt’intorno, città incongrua, città discarica con i cani randagi che non fanno una vita così diversa da quella di Kang-sheng Lee.

Tre donne forse, la madre, la figura che compare nel giorno del compleanno e la donna del supermercato che si affeziona ai due bimbi; la più piccola comprerà una grande verza e truccata come una bambola, la terrà come compagnia immaginaria per il sonno, “Miss Tette”, la ribattezzerà il fratello.

Proprio “Miss Tette” sarà dilaniata da Kang-sheng Lee completamente ubriaco; prima soffocata con un cuscino, poi mangiata, con un senso estremo della persistenza che nel primo cinema del regista Taiwanese apriva molte porte, conteneva più registri, dal sublime al grottesco, dal tragico allo slapstick, ma che in Stray Dogs ha una consistenza più feroce, ancora meno mediata se possibile, con gli occhi di uno straordinario Kang-sheng Lee che si gonfiano nel tempo “presente” del pianto, oppure il naso, che cola lentamente muco mentre l’uomo è esposto alle intemperie, durante il suo lavoro quotidiano.

In un universo senza dimensione e senza alcun limite di tempo, il cinema di Tsai Ming Liang, colloca nel presente della città martoriata, l’aberrazione della sofferenza che si nasconde sotto i grandi insediamenti urbani, come “grandi cimiteri sotto la luna”; oltre questo spazio, non era proprio possibile spingersi.

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.

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