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Journal d’une femme de chambre di Benoit Jacquot – Berlinale 65 – Concorso

Journal d’une femme de chambre, il nuovo film di Benoit Jacquot in concorso a Berlino 65, la recensione

È un’infedele fedeltà al romanzo di Octave Mirbeau quella di Benoit Jacquot, lettore tardivo del romanzo dello scrittore francese e ovviamente più interessato alle due versioni cinematografiche dirette rispettivamente da Jean Renoir e Luis Buñuel, dalle quali si tiene a debita distanza, non solo per una questione di prudenza, ma principalmente per far emergere in superficie i segni, anche materiali, di un’architettura narrativa fedele al suo stesso cinema, che trae linfa vitale dal melodramma e dal noir riletti da un’angolatura estrema.

In questo senso, la versione di Jacquot del “Journal d’une femme de chambre” è ritagliata completamente sull’interpretazione di Lea Seydoux come incarnazione di un desiderio erotico esplosivo costretto in cattività e allo stesso tempo mezzo per ingaggiare una lotta di “genere” contro le convenzioni culturali.
La prossimità dello sguardo ai corpi è in parte quella convulsa e immersa nei gesti quotidiani del mondo proletario dei Dardenne, qui in veste di co-produttori, alla quale Jacquot aggiunge una tensione “nera” che influenza la struttura stessa del racconto, costruito attraverso una serie di flashback nidificati con la funzione di complicare e rendere contradditoria la formazione sentimentale di Céléstine.

Buñuel esce dalla porta principale, ma rientra esplicitamente attraverso una serie di segni che hanno lo scopo di esplicitare la crudeltà dello sguardo; è il caso del dildo nascosto dentro lo scrigno di velluto, dei cani uccisi a fucilate e della bambina trovata morta; tra “Belle de Jour”  “La mort en ce jardin” e anche il cinema di Chabrol, procedimento che evidentemente serve a Jacquot per ricondurre questi elementi fuori dalla loro collocazione specifica, favorendo la costruzione di un cinema combinatorio che si serve dei riferimenti cinematografici e di quelli letterari, qui il solito Henry James per la figura Céléstine tra aspirazioni e desideri, ma anche Marcel Proust per la dimensione mnestica (e diaristica) che si confonde con quella onirica ed infine James M. Cain, per la strada oscura imboccata dal racconto quando esplode l’ossessione erotica tra la cameriera e Joseph, il personaggio del giardiniere interpretato da Vincent Lindon

Jacquot, come capita spesso nel suo cinema, riconfigura il tempo visivo dell’immagine con l’utilizzo di enunciazioni convenzionali utilizzate in funzione anti-retorica, era lo spazio “inverosimile” del melodramma in “3 cuori“, che in una recente conversazione avuta con noi ha descritto come doppia temporalità del racconto amoroso; sono gli zoom ex-abrupto del “Journal..”, dimensione fisica di uno spazio mentale che mette insieme corporeità e allucinazione, capacità d’amare e cupio dissolvi, fino all’epilogo sospeso nell’oscurità, viaggio senza ritorno verso la libertà distruttiva del desiderio.

RASSEGNA PANORAMICA
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Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.
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