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Kalo Pothi di Min Bahadur Bham – Venezia 72, Settimana Internazionale della Critica

Nel corso della cosiddetta guerra civile che ha dilaniato il Nepal per 10 anni, dal 1996 al 2006, contrapponendo l’esercito regolare ai rivoluzionari di ispirazione maoista, Prakash e Kiran sono due ragazzini che l’appartenenza a due diverse caste divide, ma l’amicizia e l’età uniscono. Una gallina bianca, rubata in un campo di grano, diventa la loro speranza. Allevandola, Prakash pensa di poter racimolare quel tanto di denaro per permettere alla sorella Bijuli almeno gli studi. Ma la gallina passa inaspettatamente di mano e servirà dell’ingegno per farla tornare ai piccoli proprietari.

L’opera prima di Min Bahadur Bham nasce dall’ossessione del proprio passato; arcaico, e a tratti chiuso nel circuito dei tabù e delle caste, ancora molto influenti sugli usi e i costumi della società nepalese, che il regista ha vissuto in prima persona quando era bambino. La sua ricerca lo riporta direttamente alle sue radici più profonde quando, durante la rivolta maoista, poteva avvenire che due bambini come Prakash e Kiran, appartenenti a due caste differenti, facessero amicizia.

Una cosa tanto pura e bella inserita in un contesto dove si nasconde l’agguato di una guerra.

La gallina bianca di Prakash, elemento quasi fiabesco, che lo stimola a riappropriarsene in tutte le maniere quando viene venduta per 600 rupie dal padre, supera il suo essere animale da recinto e, salvata dal ceppo e padella, diviene simbolo di speranza; una nuvola di piume bianche il cui intelletto supera di gran lunga quello delle omologate e spietate squadre maoiste.

Oltre ai rapimenti, oltre al sangue versato, resta la possibilità per Prakash di sognare. Ne farà due molto densi e significativi, dai quali emerge il suo inconscio desiderio di pacificazione tra culture e etnie differenti, e un altro dove riaffiora da lontano il ricordo del funerale di sua madre. Ma non è abbastanza per sfuggire alla sempre più pericolosa realtà.

Nel viaggio finale di Prakash e Kiran per ritrovare la gallina, trovano infatti l’impatto duro con la rivolta: i corpi a terra, le ferite. Per sfuggirvi si sporcano i visi del sangue di quegli innocenti, fingendo si essere cadaveri, un po’ come si fa per ingannare un orso in agguato. Poi c’è il bagno purificatore nel fiume,fonte di espiazione e sollievo, per Prakash e Kiran, per il Nepal.

Il film dunque non spezza la catena di morte che realisticamente è ancora troppo forte, ma lascia il segno della speranza nei simboli, disseminati qua e là, sino a quell’epilogo: una collana di pelle e una piuma di gallina, oggetti senza importanza caricati di un significato importante e della grande responsabilità di proiettare lo sguardo oltre.

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