Opera prima di Piotr Chrzan, Klezmer torna sulla Shoah dall’insolita angolazione di chi, né ebreo né tedesco, ha assistito inerme, spesso indifferente, certo consapevole, allo sterminio di un popolo.
Si tratta della Polonia, qui regione di Bialystok, e delle sue sterminate pianure e foreste, dove centinaia di piccoli villaggi abitati da ebrei, gli shtetl, furono svuotati da furia omicida e troppi vicini di casa stettero a guardare nel silenzio e in complicità passiva.
Nel solco del magnifico tributo alla memoria che già Pawlikowski ha reso con Ida (2013), pur restando molto lontano da quella forza narrativa totalmente prosciugata, tesa fino allo spasimo, che nulla concedeva alla retorica dei sentimenti, Chrzan colloca la sua storia in un contesto che si vorrebbe dimenticato, sepolto da una rimozione collettiva che in tanti casi si è tradotta in autoassoluzione se non, addirittura, in revisionismo.
Se Ida guardava al passato dopo un arco di tempo, venti anni, sufficienti per constatare l’irreversibilità del danno sulla vita delle persone, Klezmer si colloca direttamente in quel passato per ricondurlo a cronaca, frammento di quella nuda quotidianità dove vite, uomini e cose vengono triturate e disperse.
Annullando la distanza prospettica della ricostruzione storica, i cadaveri di tre giovani, un ebreo e due polacchi stesi a terra nel bosco, diventeranno polvere indistinta, habitat privilegiato di vermi e formiche.
Siamo nel ’43, in pieno sviluppo della Soluzione Finale del problema ebraico, l’Aktion Reinhardt di funesta memoria che prese il via proprio in Polonia. I ghetti cittadini furono sistematicamente liquidati e i beni degli Ebrei finirono in molte mani. Non tutti gli Ebrei finirono rastrellati e stipati sui camion o sui treni diretti ai campi. Qualcuno riuscì a fuggire nelle foreste, soprattutto giovani, anche se ne scamparono pochi fino alla fine. Chi collaborò allo sterminio fu la popolazione locale, spesso animata da odio razziale, più spesso ancora dal rapace desiderio di impadronirsi dei loro beni. La galassia concentrazionaria contava il maggior numero di lager in Polonia, dunque la popolazione non poteva ignorare per nessuna ragione ciò che accadeva sotto i propri occhi, quasi fuori della porta di casa.
Chrzan parte da qui, e il suo racconto affonda in una delle cacce all’uomo più odiose mai registrate da memoria umana, la caccia all’Ebreo.
Un giovane ebreo, ferito e ormai in fin di vita, viene trovato nel bosco da un gruppo di giovani contadini di ritorno al villaggio con il carretto carico di pigne e legna appena raccolta.
Consegnarlo al capo villaggio come vorrebbero i regolamenti? C’è un compenso per questo, tre chili di zucchero, ma bisogna sbrigarsi perché un ebreo morto non dà diritto a niente. Ma come dividersi il bottino? Chi l’ha visto per primo? Chi lo trascina a fatica, a braccia prima e poi sul carro, non dovrebbe avere la precedenza? O forse varrebbe la pena di ricavare qualcosa di più portandolo al rifugio segreto degli ebrei fuorusciti?
Queste sono le domande, intorno alla soluzione di questi problemi i maschi si accalorano, si scontrano, arrivano perfino ad uccidersi, le ragazze stanno a guardare. Eppure solo poco prima tutto sembrava tranquillo, la bella Maryška (Weronika Lewon), corteggiata da Michal (Leslaw Zurek), dava vita a gradevoli schermaglie di amore bucolico di prossima conclusione, nascosti nell’erba alta; Witek (Kamil Przystal) mentalmente disabile e lo scaltro Marek (Szymon Nowak), dedito al contrabbando a tempo perso, finivano di raccoglier legna e giocherellare con i vermi; Hanka (Dorota Kuduk) recitava poesie di Heine (un ebreo tedesco! com’è possibile? esclama Witek) e leggeva brani da un libro all’amica del cuore.
Qualunque cosa decidano di fare, sembra che nessuno si curi di quello che accade ormai da tempo sotto i loro occhi, in tutti i villaggi della zona. Masse di Ebrei rastrellati, buttati fuori dalle loro case e portati verso ignota destinazione, in fila ogni giorno per le strade con valigie e fagotti, i bambini per mano, le stelle gialle cucite sul braccio. Tutto questo deve sembrar normale se per quei contadinotti l’unico problema è cosa fare della preda nelle loro mani.
“E’ mai possibile parlare dall’inferno, testimoniare dal seno stesso delle fiamme che annientano il testimone?” aveva chiesto Shohana Felman a Claude Lanzmann quando la sua fluviale e straordinaria Shoah cominciò a circolare, in TV e al cinema.
Chrzan mostra di aver raccolto la lezione di Shoah, i sopravvissuti siamo noi e i film di Lanzmann ci rendono testimoni di qualcosa che continua a riguardarci.
Chrzan guarda da testimone e la sua cittadinanza polacca favorisce un’attenzione ulteriore, perché sollecitata dall’essere figlio di quei luoghi che videro l’orrore più da vicino di altri.
“L’azione comincia a 80 km a nord ovest di Lodz, nel cuore di una regione un tempo a forte popolazione ebraica. Chelmno fu in Polonia la località del primo sterminio di ebrei col gas. Ebbe inizio il 7 dicembre 1941”.
E’ l’ incipit della sterminata opera di Lanzmann. Da qui è bene che cominci chiunque intenda occuparsi della Shoah.
When I am laid in earth di Henry Purcell domina il finale, marce popolari tradizionali accompagnano qua e là l’azione, Aleksandra Zakrzewska, music supervisor,collabora egregiamente allo straniamento che nasce fin dal titolo.Il klezmer è la musica dell’identità ebraica. Bandita, come la vita. Ne resta un barlume fioco nel povero corpo disteso sul carro, immobile e silenziosamente avviato alla morte.
In vita, dicono fra loro le ragazze, era un bravo violinista molto conosciuto in paese.