Via crucis, il titolo del film significa via crucis, e come il rito cattolico è suddiviso in quattordici stazioni, per l’esattezza quattordici piani sequenza (il primo della durata di un quarto d’ora, gli altri sugli otto minuti). È la storia della quattordicenne Maria Göttler (Lea van Acken), prossima alla Cresima e membro di una confraternita religiosa inventata (la Società di San Paolo) che si prefigge l’obiettivo di tornare alla chiesa delle origini mediante severe rinunzie e disciplina di ferro.
L’intera famiglia di Maria appartiene alla congrega: oltre al padre, al fratello Thomas e alla piccola Katharina, che restano sullo sfondo, il nucleo è formato dalla ragazza alla pari Bernadette (Lucie Aron), dalla madre padrona (Franziska Weisz) e dal fratellino Johannes, di anni quattro, che ancora non parla. L’intero film, dall’inizio alla fine, altro non è che la via crucis di Maria: basta sostituire «Gesù» con la quattordicenne tedesca e il giuoco è fatto.
Perché di giuoco si tratta, a ben vedere. Brüggemann non è nuovo a imprese virtuosistiche semi-hitchcockiane (Neun Szenen, 2006), e la resa di questo tour de force è prodigiosa, complice un cast immacolato e un lavoro di messa in scena davvero impressionante. Anche se smaccatamente a tavolino. Su quattordici piani, undici sono statici e in tre la macchina da presa si muove, azzardando persino un crane shot conclusivo ben poco sobrio, con brividi da Lars von Trier in stile Onde del destino.
Per carità diddio, dal punto di vista drammaturgico la pellicola sta in piedi e riesce persino a coinvolgere, soprattutto quando in campo c’è la madre (un mostro come solo la cultura germanofona può partorire) o Christian (Moritz Knapp), l’aspirante fidanzatino di «santa Maria». Il problema è un altro.
In Germania, o in Austria, la religione è molto integrata nella società secondo un patto – laico – di reciproco rispetto. In altre parole, le «blasfemie» esasperate di Ciprì e Maresco non avrebbero ragione di esistere in un contesto del genere. Due esempi di cineasti che hanno affrontato, in tempi recenti, il tema del bigottismo e del fanatismo assassino: il miglior Hans Christian Schmid (Mechanik des Wunders, Requiem) e Ulrich Seidl (Jesus, du weißt, Paradies: Glaube). In entrambi casi, tra parentesi, citiamo un documentario e un film di finzione (nel caso di Requiem, anfibio, nel senso che è comunque ispirato a fatti realmente accaduti).
I Brüggemann (Dietrich e Anna, autori dello script) sembrano volersi ispirare alla moderazione di Schmid, ma l’esito è un gioco al massacro, peraltro prevedibilissimo, degno di Seidl e dei suoi cali di tensione (Maria… Hofstätter?), con momenti sadomaso in stile Haneke-trash. Il tutto in un certo senso acuito dalla «scopa nel c**o» rappresentata dai dogmi autoinflitti della messa in scena. E chi ha visto Sacrificio (1986) e L’ora di religione (2002) non si scomporrà nell’assistere alle stazioni 12 e 13 di questa teutonica via crucis ridotta a mero esercizio di stile. Che dire: peccato.