Il documentario firmato Jacopetti/Prosperi/Cavara è un viaggio alla scoperta della donna nel mondo, del suo ruolo, del suo spazio e della sua identità. Più che un viaggio nel mondo alla scoperta della donna, è quindi un vero e proprio viaggio “nel mondo della donna”, in tutte le sue varianti e i suoi contesti sociali e culturali.
Ciò che si evince dal caleidoscopio di realtà a cui assistiamo è che gli autori usino tale panoramica interculturale per far emergere una sottesa denuncia alla condizione della donna, in una società che sempre più tende ad una mercificazione del corpo femminile. Il fatto poi che tale oggettualizzazione coincida con una parallela emancipazione della donna, crea un forte cortocircuito culturale, a cui il sensibile occhio critico del trio non resta indifferente. Il viaggio in questo variegato contesto che è il mondo, quindi, si inquadra come pretesto per comprovare alla coscienza collettiva il concetto di relatività.
Dalle reclute dell’esercito femminile israeliano all’harem personale del colonnello Hopkins sull’isola Iwa, dalla nudità maliziosa della donna europea alla società nudista cinese, dalla disperata prostituzione delle giovani donne di Hong Kong alla senziente prostituzione di fronte all’obiettivo delle modelle occidentali, il documentario segue questo saltellante tragitto scandito da repentini cambi di toni, a riflettere la polimorfia della donna. Da ilare a canzonatoria, da tragica a grottesca, la narrazione che accompagna le immagini è quindi perfettamente coerente con gli intenti espressivi dell’opera.
L’immagine della donna che ne scaturisce è ambigua, come gli ideali di bellezza a cui anela: dalle abbronzature integrali europee al candido pallore delle donne orientali. La donna è mutevole e molteplice, essa stessa schiava di quel modello socio-culturale a cui appartiene. Una donna frammentata e sempre ineluttabilmente imperfetta, nella sua autocritica concezione. Una donna in una società che, più che cercare, costruisce il suo modello ideale, attraverso la raccolta di migliaia di scatti fotografici di parti anatomiche perfette di svariate donne, per poi costruirne una ideale, assemblata per sezioni (il progetto del fotografo Milton Greene). Un autentico “mostro di bellezza” di frankensteiniana memoria. «Questa è la legge del cinema, cento donne fatte a pezzi per inventarne una sola», è il commento che accompagna le immagini. Una efficace estremizzazione del dogma hollywoodiano, che ricorda la S1m0ne di Andrew Niccol.
Ma i due ideali sono interscambiabili e intermutabili. La donna occidentale adotta lo stile orientale, mentre la donna orientale stessa diventa schiava della moda e dell’estetica occidentale, fino ad emularne i tratti somatici con interventi chirurgici. Ma tutte, sempre, spinte dallo stesso scopo a cui anelano: successo facile, nel cinema e nella moda. Ed ecco che il montaggio beffardo del documentario alterna queste mutazioni del corpo al contesto in cui finirà per essere sfruttato, come specchietto per le allodole nella vendita di prodotti industriali, facendo di quel corpo stesso una merce in vendita.
Ma questo spirito critico dal gusto burlesco risulterebbe efficace solo in parte senza l’essenziale contributo di Riz Ortolani alle musiche. Un uso onomatopeico e fumettistico delle musiche, a scandire e beffeggiare i movimenti dei personaggi. Molto simile all’uso che ne fa Mario Nascimbene nell’episodio Gli italiani si voltano firmato Alberto Lattuada nel film collettivo Amore in città. Un uso politicamente scorretto del repertorio di immagini, ma che nella costruzione dell’implicita critica finale assume un valore imprescindibile.
La versione in DVD che ripropone Medusa è purtroppo priva di contenuti extra. Il lavoro trae però forza da una visione ripetuta (come del resto tutti i lavori di Jacopetti/Prosperi), magari a distanza di anni, decenni. Tanto per vedere se la situazione e la condizione della donna risulti mutata, nello spazio e nel tempo. Ad oggi la conclusione che se ne trae dalla visione di questo documentario, datato 1963, è che nulla sia variato, se non un accentuarsi ulteriore di quel processo di omologazione ad un modello di bellezza che, tutto sommato, non ha senso e non esiste, se non appunto nella costruzione artificiale propinata dai media.