Che cos’è “la plaga”? È il caldo infernale che affligge la Catalogna? Oppure la mosca bianca che rischia di distruggere il raccolto difeso ogni giorno dal bracciante Raul insieme al suo lavorante moldavo, Iurie. Potrebbe rappresentare il tempo, inesorabile, che scandisce l’attesa di Maribel, una prostituta in età avanzata mentre aspetta i clienti su una statale che spacca in due la campagna desertica. E se fosse invece la morte che segna il corpo della vecchia Maria Ros, ostinanatamente attaccata ai rituali della terra, ma costretta a ricoverarsi in una casa di riposo per difficoltà respiratorie; li dentro, Rosmarie, un’infermiera filippina arrivata da poco, la assisterà dicendole di accettare questo passaggio come completamento della sua vita passata.
Il primo lungometraggio di Neus Ballus, già inserito nella sezione Forum dell’ultima Berlinale, è dedicato proprio alla memoria di Maria Ros, nata nel 1923 e morta durante la lavorazione di questo piccolo film sospeso e anti-retorico, un “Nick’s Movie” che sostituisce ad un corpo ir-riconoscibile e mitologico, quelli comuni di alcuni nativi dell’entroterra Catalano, osservati con la consapevolezza che lo sguardo cinematografico, a prescindere dai formati, è un vampiro che nutrendosi della vita, in diretta o allestita non fa differenza, racconta la verità proprio in quel passaggio tra simulazione e registrazione.
C’è molto del cinema di Jean Rouch in “La plaga”, ovvero una rilettura infedele della via “scientifica” del documentario; Ballus scende nel dettaglio, si attarda sul proliferare della peste portata dall’invasione di mosche bianche, segue il corpo deforme di Maria Ros mentre compie sforzi impossibili per la sua struttura fisica e per la sua età, lotta insieme a Iurie durante i suoi allenamenti in palestra, intreccia per un attimo la vita dei nativi con quella di Rosmarie, donna sradicata e attaccata al suo lavoro come ad una missione.
La plaga allora potrebbe essere quello che il cinema lascia fuori dalla scia del visibile.