Anche a giudicare dai precedenti corti La Prima Legge di Newton e Terra, l’esordiente Piero Messina condivide col presunto nume tutelare Paolo Sorrentino, di cui é da anni aiutoregista, due tratti distintivi: la predisposizione, di per sé nobilissima e mai abbastanza diffusa, a pensare il proprio cinema a partire dalle immagini e l’attenzione peculiare nell’uso di elementi sonori in chiave espressiva, attenzione che sfocia di frequente nel gusto del “numero musicale”, della sequenza-videoclip. Col suo primo lungometraggio, però, il giovane regista siciliano rivela intenzioni registiche e narrative piuttosto distanti da quelle del collega premiato con l’Oscar, producendosi nel tentativo di fare della continua trovata visiva (e sonora) uno strumento utile all’introspezione dei caratteri piú che un effetto pirotecnico al servizio del ritmo e del racconto.
L’Attesa, che mutua il proprio impianto drammaturgico dalla piéce di Pirandello La Vita che ti Diedi, dispone i propri personaggi principali in una sorta di triangolo psicologico in cui il vertice che fa da perno risulta immerso nell’ombra: una madre ancora incapace di accettare la recente morte del figlio, coinvolge nella propria negazione la ragazza di quest’ultimo, venuta a trovarlo in Sicilia dalla Francia e convinta dalla padrona di casa ad attenderne l’imminente ritorno. Ereditá della trasposizione è anche la concezione pirandelliana della perdita: ció che ci resta é l’immagine mentale che ci costruiamo della persona amata, ciò che perdiamo é il nostro riflesso in essa, la funzione che svolgevamo ai suoi occhi.
L’ambiziosa sfida raccolta da Messina é quella di ridurre all’osso i dialoghi diretti (ovviamente sfaccettatissimi e fluviali nel testo teatrale) e provare a renderne la portata filosofica ed emotiva attraverso gesti, rituali, sensazioni. Il cimento gli permette di sfoggiare un innegabile controllo e ampiezza di gamma degli elementi della messinscena, dall’espressivitá della luce alla costruzione delle inquadrature, dal fuoricampo sonoro all’intervento delle musiche, finendo peró per compiacersi di finezze pedisseque e intestardirsi su elementi simbolici abusati, a scapito dell’efficacia degli snodi narrativi.
Esempio lampante, nel bene e nel male: i teli a lutto appesi su tutti gli specchi della casa della donna, rimossi dopo aver adottato emotivamente la ragazza e aver cosí riacquistato il proprio riflesso, ovvero la funzione di madre (passaggio ulteriormente sottolineato da una spettacolare immersione della giovane nell’elemento uterino dell’acqua).
Le dicotomie vita/morte e realtà/negazione vengono continuamente reiterate nel classico rapporto dinamico tra luce e buio, declinato su numerosi piani: vi si accenna spesso nei pochi scambi di battute, fa da leit motiv nei titoli di testa, emerge nei paesaggi etnei, alternativamente irrorati dal sole o neri di lava, nelle stanze buie striate dalla luce esterna, nelle dissolvenze a nero o in bianco, nella preparazione del cibo, nella scena finale della processione, tanto visivamente suggestiva quanto intrisa di concetti ripetuti lungo l’intera durata del film.
Ingessate da una miriade di simboli in una lunga stasi dei propri personaggi, le due protagoniste (Juliette Binoche e Corinna DeCastro) sono chiamate a sorreggere il ritmo del racconto a suon di esitazioni, lacrime e sguardi intensi, non riuscendo peró mai a distogliere dalla sensazione che stiano sollevando un congegno mirabilmente disegnato ma sostanzialmente vuoto.
Curiosa la scelta di ambientazione temporale, per quanto paradossalmente complice dell’appesantimento del racconto:
per rendere la storia allo stesso tempo contemporanea e plausibile, a colpi di immagini di Papa Woytila e i quadrature di vecchi modelli di cellulari, mac e videogiochi, gli eventi si collocano attorno a dieci anni fa, quando le notizie personali non permeavano dai social e dagli smartphone.
Il risultato é un esordio dal sapore artificiale ed eccessivente chiuso su sé stesso, ma che può comunque far ben sperare proprio per la qualità della propria eccessiva sofisticazione e per la quantità di artifici nella faretra del regista.