Stratificazione ed esfoliazione. È un processo palindromo quello che muove l’arte digitale di Lech Majewski, perchè ai numerosi livelli dell’immagine che ne “I colori della passione” si sovrappongono in una prospettiva intimamente tridimensionale, si oppone un movimento dell’occhio che rompe l’interpretazione statica e mono-oculare dei tableaux vivants al cinema. Era lo spazio virtuale creato a partire dall’analisi del dettaglio nel viaggio possibile e orizzontale attraverso “La processione al Calvario” di Pieter Bruegel, ed è anche l’interazione tutta possibile e infinita tra l’attività “Onirica” e un dramma personale. Se allora nel nuovo film di Majewsky il digitale erompe in modo intermittente nel quotidiano, quasi con un processo inverso a quello sperimentato nel film precedente, dove il gesto comune veniva rintracciato tra le pieghe di una realtà transmediale densissima, è ancora la visione multisoggettiva che è importante per l’artista Polacco. “Onirica”, al di là dei ricchissimi riferimenti all’universo Dantesco che faranno la gioia di una critica interessata a sbattere il corpo del film sul tavolo autoptico, mantiene una relazione vitale e aperta con i numerosi livelli di realtà che dischiude. È un cinema del flusso quello di Majewsky, che senza soluzione di continuità passa da uno strato all’altro, instaurando un dialogo con il passato che senza mediazioni si serve del digitale come linguaggio secondo una prospettiva che era già di artisti come Zbigniew Rybczyński, in “Onirica” citato “massivamente”, forse anche in forma polemica, considerato il disinteresse di Majewsky per tutta l’arte moderna (ovvero dalla fine dell’800 in poi) inclusi, si presume, i mondi Magrittiani del suo collega Polacco. E se per chi scrive, la ricerca su tempo e sullo spazio dell’immagine elaborata da Zbigniew Rybczyński rimane ancora insuperata, Majewsky si muove certamente in modo onestissimo e sofferto tra gesto e sogno, lavorando proprio sulle cicatrici del mezzo digitale invece che su un’asettica perfezione. Ne è un esempio la formidabile sequenza dei buoi che in “Onirica” arano il pavimento del supermercato e che Majewsky stesso ha raccontato alla stampa durante l’anteprima Fiorentina del film come un processo che si è servito di molti set, molti livelli di realtà tra flagranza e artificio. Ecco che allora quello con Dante è prima di tutto un dialogo, la ricezione di un senso che riesca a mettere insieme la sfera individuale con un’immagine della contemporaneità che diventa di volta in volta politica, metafisica, filosofica, secondo quel concetto “liquido” e permeabile di Storia già delineato da un pensatore come Pierre Sorlin.
Martedi 8 aprile Lech Majewski era ospite del cinema Odeon di Firenze per presentare in anteprima Nazionale “Onirica”, distribuito e co prodotto da CG; durante l’incontro con la stampa ci ha raccontato il suo rapporto con il Cinema, l’arte moderna e Dante.
L’avventura di “Onirica”
Realizzare film per me è un processo intimo perchè attraverso di essi narro esperienze personali, frammenti della mia vita, anche se per farlo ricorro spesso ad amici e personaggi del passato. Parlare con i maestri del passato è una cosa che mi piace, è come instaurare un dialogo con loro. Ho infatti la sensazione che mi possano dire molto di più di quanto non facciano gli artisti del presente. Devo dire che non apprezzo affatto l’arte moderna perchè contiene un incredibile eccesso di artificiosità e di semplice cattivo gusto. Certamente mi intimidisce riferirmi ai maestri del passato, ma questa relazione mi spinge ad indagare quella capacità creativa che ha consentito di sviluppare grandi capolavori. “Onirica” completa il trittico legato ai maestri del passato appunto, il primo film che ha introdotto questo dialogo era “il giardino delle delizie” ispirato all’arte di Hieronymus Bosch, seguito da “i colori della passione”, conversazione con l’arte di Pieter Bruegel e concluso da “Onirica”, dialogo costante con Dante Alighieri, di cui mi trovo a parlare proprio nella città dal quale fu cacciato. Dante, ci parla ancora dal suo punto di vista, che ci piaccia o no, non importa se siamo d’accordo o meno con quello che ci dice, è importante come sia stato in grado di parlare del suo mondo e di lambire i territori della filosofia, della religione e della scienza con un respiro vastissimo, che adesso sembra impossibile. La contemporaneità non riesce ad innalzarsi per offrire uno sguardo più grande, siamo completamente persi in questa esplosione di segni e simboli informativi che non riescono ad afferrare una dimensione più complessiva. È allora un’esplosione certamente ma anche un’implosione; perchè quello che adesso ci circonda è un proliferare di opere, sopratutto film di genere, fatti molto bene, con grande abilità ma che non hanno niente di personale. Sono opere per le quali potrei esser disposto a pagare, come un contratto di dipendenza con uno spacciatore, affinchè la mia evasione sia del tutto garantita, ma non c’è niente di personale in questo rapporto. Quello che al contrario mi stimola della mia conversazione con Dante è appunto il punto di vista soggettivo; ci possono anche essere delle contraddizioni, qualcosa con cui non siamo d’accordo, ma quello che manca del tutto nella relazione con il contemporaneo è proprio questa intimità con gli artisti, ormai spinti oltre una distanza di tipo ufficiale, che nega personalità e dialogo.
La modernità come espressione sintomatica del brutto: Il momento presente è l’inferno
L’inferno del presente, quello in cui ci troviamo, è molto profumato ed attraente ma c’è anche il proprio modo di attraversarlo e di viverlo; mi ricordo che quando studiavo all’accademia delle belle arti ero molto affamato di tutto quello che era moderno e contemporaneo, per poi sentirmi d’improvviso abbandonato, lasciato da solo. Se osservate i visitatori di un museo come il Metropolitan davanti ai lavori degli antichi maestri, questi si avvicineranno come a stabilire un rapporto di intimità con l’opera. Quando si passa al barocco e al neoclassico si frappone una maggiore distanza, i visitatori si sentono molto meno coinvolti e per niente spinti ad instaurare una relazione intima con l’opera, per poi scappare definitivamente quando si trovano di fronte all’arte contemporanea con cui intrattengono un rapporto di maggiore distanza, fugace, senza intimità e dialogo. Proprio per questo motivo ho la necessità di ritrovarmi in questa conversazione con i maestri del passato. Parlando con Grotowski mi domandavo se era possibile trovare adesso compositori sublimi come Bach o scrittori e drammaturghi all’altezza di Shakespeare.
Field of dogs
Il significato del titolo si riferisce a molte cose. Ci sono alcuni riferimenti Danteschi ma anche quello relativo ad un campo di battaglia Polacco, battaglia che secondo uno storico sembra sia stata vinta dalla Polonia contro i tedeschi mentre per altri non ha mai avuto luogo. Una difformità di opinioni che ho anche recuperato in relazione ai fatti del 2010, quando l’aereo presidenziale polacco si è schiantato presso l’aeroporto militare di Smolensk-Siewiernyj; incidente dove persero la vita il Presidente Lech Kaczyński, sua moglie e diversi altri membri ed ex componenti delle più alte istituzioni polacche. L’incidente ha avuto luogo nello stesso punto in cui i russi uccidevano i Polacchi all’inizio della seconda guerra mondiale. Tutt’ora il popolo Polacco è diviso su quella che sia la verità riguardo questi fatti. Il titolo del film fa quindi riferimento a questa ambiguità che lega tra di loro diversi eventi storici.
Il mio Dante
Ho affrontato la lettura di Dante in lingua polacca, attraverso due traduzioni e altre tre in lingua inglese, cinque traduzioni in tutto. Anche perchè quando leggi Dante si leggono sopratutto le note a piè di pagina. Ho scelto di dialogare con lui perchè per me, Dante è stato un grande maestro nel combinare la sfera personale con quella pubblica.
Il digitale
La rivoluzione digitale ci consente di creare immagini che una volta non ci saremmo neanche sognati di poter pensare, detto questo anche disponendo del budget più consistente e dei mezzi più avanzati, non credo proprio sia possibile catturare e immaginare la densità visionaria del mondo Dantesco, io non volevo neppure provarci ad affrontare quella che sarebbe stata una sfida impossibile, ma sono stato ispirato da questo grande maestro senza la presunzione di rappresentarlo, per questo ho narrato la mia storia.
Il processo creativo
Ci sono voluti sei anni per realizzare il film; è un processo molto intimo per me, che richiede tempo. Se prendiamo “i colori della passione”, ogni inquadratura si componeva di numerosi strati, in ogni immagine c’era più di un livello. Per quanto riguarda “Onirica” ho dovuto affrontare molte difficoltà, per esempio la scena in cui i buoi arano il pavimento del supermercato; nessuna struttura del genere avrebbe voluto farci girare quella scena, perchè ne sarebbe venuta fuori un’immagine sporca, che non si associava all’idea di pulizia che un supermercato deve restituirci. Alla fine abbiamo trovato una catena disposta a farci girare; si chiama “Real”, un nome che tra l’altro mi piaceva molto. Il presidente della struttura aveva visto “I colori della passione” alla national Gallery di Londra e gli era piaciuto molto: “Majevsky è un artista, per me può fare tutto quello che vuole”. Il problema che si poneva, da questo momento in poi, era quello dei buoi. Non potevo utilizzare dei buoi qualsiasi, mi servivano quelli sfruttati per arare, i buoi da giogo insomma, un tipo di animale che si trova solamente in Cina attualmente e farli arrivare fino sul set non era certo un’impresa semplice. Ma perchè non usi i cavalli? Mi è stato detto. No, non volevo neanche parlarne, quella scena non avrebbe avuto alcun senso senza i buoi. Oltre a questo aspetto, il pavimento di un supermercato, una volta divelto con l’aratro, non avrebbe certo fatto emergere direttamente la terra, come volevo io, per questo lo abbiamo ricostruito in studio, imitando la pavimentazione, e facendo emergere direttamente la terra dal sottosuolo. La scena dell’aratura è stata girata senza buoi, con il padre che li traina, e ovviamente è stato necessario fare più di un take. I buoi poi li abbiamo trovati in una località al confine tra Polonia e Germania, un luogo pedagogico, una sorta di spazio aperto dove si insegnava ai bambini le tecniche arcaiche dell’aratura, il contatto con la natura e via dicendo. Il trasporto era impossibile, perchè avrebbe significato far del male alle bestie, per questo lo studio è stato portato dove si trovavano i buoi. È li che ci siamo accorti che la velocità con cui il padre procedeva era molto diversa da quella dei buoi, tutte le problematiche legate all’aggiustamento dei tempi ci hanno costretto a rifare tutto sul nuovo set allestito. In un lavoro complesso dove si devono ricreare le stesse condizioni di illuminazione, giusto per fare un esempio, il produttore del film quando ha visto il girato mi ha detto: “Lech, tutto questo lavoro per soli diciotto secondi?!”