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Legend di Brian Helgeland: la recensione

Legend è il deludente film di Brian Helgeland ispirato alle vicende malavitose che legarono i fratelli Krays all'East End Londinese degli anni sessanta

Rispetto all’occasione mancata di Brian Helgeland, c’è più mitologia nei primi minuti di The Krays, il film diretto da Peter Medak nel 1990 e incentrato sulle gesta criminali dei gemelli Reginald e Ronald Kray nell’East End Londinese degli anni sessanta. Il parto di sangue di Violet Kray assume il valore di un presagio, delineando un percorso ellittico che unisce nuovamente i fratelli davanti al feretro della madre. La sporcizia, anche formale, del film di Medak scritto da Philip Ridley, sottintende molti degli aspetti che Helgeland fa emergere in modo esplicito nel suo Legend, assicurato in parte alla linea tracciata da Josh Pearson nel  libro “The Profession of Violence: The Rise and Fall of the Kray Twins”, biografia scritta cinque anni dopo il film di Medak e decisamente convenzionale rispetto alla scrittura visionaria di Ridley. Helgeland, che è un ottimo sceneggiatore, si fa sentire sopratutto nei dialoghi e nel linguaggio tra motto di spirito e follia affidato al personaggio di Ronnie, a cui riserva uno spazio completamente sopra le righe rispetto alla piattezza della messa in scena, dove ambienti, corpi e strade della suburbia evitano polvere e sporcizia per trovarsi immersi in un decor senza alcuna forza.

È un contrasto che si ripete sul corpo e i gesti di Tom Hardy, costretto ad adattarsi a quel bilanciamento tra razionalità e perdita di controllo che in entrambi i casi rischia di sconfinare in uno spazio grottesco. La deformazione ottica, percettiva e prospettica era al centro del film di Medak, tutto condotto sul filo di uno sguardo allucinato e accentuato dalla diversità visibile dei fratelli Kemp, una trovata semplice quanto geniale per creare quella crescente e disturbante confusione percettiva.

Hardy sembra invece giocare al travestimento accentuando il più possibile quella stessa differenza sul proprio corpo in una forma tra pezzo di bravura e artificialità, lavora quindi sulle difficoltà di pronuncia e sui movimenti pesanti, ma non viene mai spinto oltre quel confine dove la violenza possa esplodere in tutta la sua feroce irrazionalità travolgendo tutto con intensità, tranne forse nella sequenza dove spezza le articolazioni di alcuni rivali a colpi di martello, immagine al margine, quasi spiata con pudore, ma non certo per attivare certe asimmetrie tra pieno e vuoto, inquadratura e fuori campo.

L’omosessualità dichiarata con orgoglio da Ronnie, inclusi i suoi desideri attivi, serve a rendere del tutto esplicita la relazione con il fratello, sempre sull’orlo di un amplesso, come nella sequenza in cui si battono e finiscono sanguinanti sul pavimento, in un abbraccio in cui i residui della lotta si fanno ancora sentire. È un aspetto che mette tutto in campo, non lasciando quasi mai niente all’intuizione e che ripete un copione già conosciuto, come quello del rapporto dei gemelli con la madre, relegato nello spazio di alcuni sketch di fissità quasi televisiva e che se confrontati con il film di Medak (alcune sequenze “casalinghe” partono da presupposti identici) perdono, anche a ventisei anni di distanza, quel gioco estremo sui piani della visione che caratterizzava il cinema, spesso estremo, del cineasta di origini ungheresi.

Il marciume che interessa ad Hegeland è quello “didascalico” legato alla descrizione di una classe politica corrotta, vettore e riverbero allo stesso tempo delle azioni criminali dei Krays, ma non si va oltre una drammaturgia funzionale, ad eccezione della sequenza in cui Reggie viene sbattuto per la prima volta in guardina, ingaggiando uno scontro surreale con un secondino inferocito, tutto basato sulla gestione dello spazio.

Piccoli frammenti insomma, e se nel film di Medak la madre dei gemelli aveva un ruolo centrale, Helgeland sceglie un’altra strada e prova a costruire il punto di vista sulla vita dei Krays a partire da Frances Shea (Emily Browning), la moglie di Reggie, a cui affida il compito di cucire il racconto dal punto di vista della morte. Sul suo volto impertinente, sulla sua passione per le caramelle effervescenti, l’ostinazione ad amare nonostante le apparenze, i segni di una violenza con la quale non scenderà mai a patti, Helgeland costruisce il personaggio migliore di tutto il film,  ma anche in questo caso addomesticando e spostando completamente il senso rispetto al personaggio di Frances interpretato da Kate Hardie nel film di Medak, tiepida figura di provincia, il cui ruolo inebetito e impotente accentuava quel senso di squallore e ineluttabilità su cui puntava The Krays. La Browning è troppo bellina, troppo brava, troppo sexy, anche quando giace morta sul letto, imbottita di psicofarmaci.

RASSEGNA PANORAMICA
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Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.
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