In una vecchia intervista per Mediamente, Derrick De Kerckhove descriveva la relazione tra reti connettive e intelligenza umana come la cosa “più vicina alla spiritualità che la tecnologia ci abbia mai dato finora“.
Il geniale sociologo Belga naturalizzato Canadese, e fino al 2008 direttore della fondazione McLuhan, con queste parole non indicava certo una con-fusione delle due dimensioni, tanto da tenere ben distinta la spiritualità dallo sviluppo della realtà virtuale, due esperienze difficilmente sovrapponibili se non in virtù di una mutazione di alcuni processi cognitivi, primo tra tutti quello legato alla nuova velocità e all’ubiquità delle attitudini mnestiche, private a poco a poco di una possibile locabilità in termini spaziali.
All’interno di un dibattito vastissimo, che potremmo circoscrivere al delinearsi del concetto di “esistenza digitale” a partire dagli studi di Focault sulla Governamentalità passando per i “Digital Beings” di Nicholas Negroponte, che già negli anni ’90 preconizzava questo passaggio dall’atomo ai “bits” nella proliferazione ubiqua dell’informazione digitale, arriviamo in modo vertiginoso alla mutazione dei concetti di tempo e spazio nell’esperienza sopratutto interpersonale. Non solo una questione di maggiore velocità nella gestione delle informazioni, quanto l’emergere di una nuova significazione del tempo, che nel relativizzare l’illusione della nozione cronologica, muta di volta in volta nella sua versione inter-relata, ritardata, congelata oppure sintetizzata e frammentata; attraverso una frase, potremmo dire che: il tempo diventa espanso.
La realtà virtuale è allora più una questione di Cybertime che non di Cyberspace; fuori-usciti dallo spazio, la cui relazione con l’individuo permane al livello di una soggettività corporea legata alla progressiva fusione neurologica del dispositivo con la “fisicità” dei gesti quotidiani, dentro la Rete ci ricostruiamo come esistenze digitali complesse a partire da un’idea temporale che è allo stesso modo con-presenza ed evanescenza, contemporaneità e dilatazione, materia e memoria. Basta pensare allo stesso concetto di “tempo reale” nell’architettura dei social media, non semplicemente come prassi strategica, ma proprio come modello cognitivo, destinato a lottare all’infinito con un aumento della velocità che possa ridurre al minimo, fino a superarla, quella distanza che si frappone tra istantaneità del gesto e produzione dell’informazione, una velocità che non può certamente raggiungere quella dello “spirito”, sempre secondo De Kerckhove, ma che può al limite aiutarci a comprenderne alcuni aspetti attraverso una mappatura cognitiva.
Un “instagramma” quindi che non ha niente a che vedere con l’idea di tempo e spazio nelle strutture alfabetiche, ovvero quella relazione tra mente e codificazione “creativa” della scrittura capace di frapporre una “distanza”, che Spike Jonze, nel suo ultimo “Her“, sembra tener ben presente quando ci mostra il lavoro di Theodor (Joaquin Phoenix) come scrittore di lettere d’amore per conto terzi. Oltre ad un avanzato programma di videoscrittura, con il quale può simulare l’irregolarità manuale grazie ad un font “handwriting”, Theodor utilizza una stampante quasi nel tentativo di riappropriarsi inutilmente di una relazione tattile, corporea, spaziale con il frutto della sua creatività, in un contesto che non sembra troppo dissimile dalle modalità con cui il simulacro di un mondo che non c’è più (filtri vintage, effetti lomografici) viene processato e “replicato” dalle applicazioni digitali per dispositivi mobili, la nostalgia per un “corpo” (inchiostro o pellicola non fa differenza) mai vissuto.
Il futuro che Spike Jonze si è immaginato è quindi quello già dentro il tempo espanso della Rete connettiva, non semplicemente per la relazione che lo stesso Theodor intrattiene con i dispositivi tecnologici che gli facilitano la vita, aumentando la sua percezione fisicamente “finita” della realtà, ma per il modo in cui il set e i personaggi che lo abitano, sembrano a loro volta il prodotto di una contrazione dei processi mnemonici.
Il ricordo in “Her” non è meno pregnante che nella fantascienza Markeriana, o in quella di Ridley Scott, se lo pensiamo, come ha acutamente osservato Jean-Louis Schefer in un suo saggio su la Jetée, come un procedimento anti-Proustiano, tutto orientato alla costruzione di un dispositivo finzionale che ha origine proprio nell’atto stesso della memoria. Del resto, è la voce narrante di Chris Marker all’inizio del film che lo dice: “Questa è la storia di un uomo segnato da un’immagine che proviene dalla sua infanzia“; come a dire che l’origine di tutte le immagini fotografiche che vedremo ricombinate, non derivano da una struttura narrativa di tipo rappresentativo, ma da un’articolazione complessa della memoria, la cui sintesi temporale non ha un ordine che possa consentire nè verifica nè direzione.
Tutte le immagini intorno ai personaggi di “Her” sembrano ruotare intorno ad una serie di frammenti temporali presenti a se stessi, senza la necessità di recuperarli con un viaggio a ritroso. La modalità combinatoria di OS1, il sistema operativo con la voce di Scarlett Johansson, si evolve in un contesto connettivo ormai senza più limiti, eliminando proprio quella distanza di cui si parlava con un superamento completo del concetto di velocità, che avvicina l’esperienza di Theodor ad un agnizione di tipo mistico, a cui reagisce con estremo dolore proprio quando non riesce ancora a comprendere un’informazione completamente ubiqua, che è diventata più veloce del pensiero, come lo spirito appunto.
L’immagine di “Her” è allora una lotta costante tra la persistenza del corpo soggettivo, quello di Theodor, vero agente di più esperienze virtuali, e una virtualità che risiede sia nella voce di un Os che ha superato qualsiasi residuo di interfaccia grafica, sia nelle immagini che abitano le memorie dei personaggi.
È Rooney Mara, sospesa in una luce che a un certo punto diventa pulviscolare, in una forma di sintesi estrema del ricordo che si avvicina moltissimo agli intermezzi meditativi di Resnais ne L’amour A Mort, “siparietti” recuperati non a caso e molto recentemente da uno sperimentatore a metà tra mondi analogici e digitali, come Stephan Mathieu, nel suo lavoro pubblicato per Line Label e noto con il titolo di “Remain“, drone-music che non disegna l’ambiente ma ne viene a sua volta influenzata in un processo di circonvoluzione che è un continuo scambio tra sorgenti sonore, formati, supporti, quasi ad azzerare la distanza tra l’oggetto e il ricordo.
Ecco che in Her il continuo scollamento tra immagine e sorgente, la luce che diventa pulviscolare, l’esperienza aptica che viene a mancare, sostituita da un fotogramma nero che toglie il respiro, lo spazio evanescente che circonda i personaggi, indifferentemente dalla sua locazione in un ufficio iper-tecnologico o in una spiaggia affollata, è istante e ricordo allo stesso tempo, come se i paradossi temporali ancorati ai dispositivi di riproduzione del Soderbergh di Contagion (in Her montatore non accreditato) sostituissero le facoltà mnestiche comuni con un sistema caotico ormai del tutto autonomo.
Tutte le immagini sono allora reversibili e sullo stesso piano, perchè quello di Her sembra il tentativo di riflettere sui limiti del pensiero soggettivo, pur lavorando su frammenti di pura soggettività; non ci stupiamo che una certa critica, convinta o delusa dal film di Jonze, si sia fatta intrappolare positivamente o negativamente da questo mondo dato per chiuso, come se fosse da una parte una “critica” alla realtà delle relazioni inter-relate, oppure un limbo astratto senza alcuno spazio per il fuori campo.
Non siamo d’accordo con le motivazioni di chi lo ha amato nè con quelle di chi lo ha odiato, perchè in buona sostanza ci sembrano provenire dalla necessità di normalizzare con i soliti strumenti di derivazione umanistica, uno strano oggetto (certamente ambiguo) che lavora coraggiosamente sui processi cognitivi e su una mutazione anche neurologica che ci coinvolge tutti. Questa non andrebbe certo osservata attraverso la lente moralistica e anche un po’ imbarazzante di una qualsiasi Sherry Turkle, i cui studi sull’interazione tra individuo e macchina virtuale, in un’accezione larghissima che coinvolge anche i social media, suonano un po’ come una teoria già vecchia che nega l’a-moralità positiva e potenzialmente connettiva di un linguaggio e una prassi che dovrebbe aprire nuovi mondi possibili, soprattutto nelle scuole dell’obbligo. Non si affronta la Media Education con il terrore.
Her racconta un sistema relazionale, che è anche per conseguenza la base di quello educativo; non offre risposte sul cinema del futuro, nè su cosa potremmo diventare; a volte si lascia trascinare dalla scorciatoia di utilizzare Os1 come una voce narrante che ci spiega l’evoluzione di alcuni processi cognitivi, altre volte colpisce con immagini potenti che riconfigurano il senso di quello che abbiamo visto.
Her è un piccolo film stimolante che diventa doloroso nel momento in cui ci sorprende completamente immersi nell’immagine di un tempo contratto e improvvisamente dilatato, di cui non possiamo avere più l’illusione del controllo, se non nella prospettiva di applicare un desiderio distruttivo di possesso su qualcosa che fortunatamente non possiamo più afferrare, fosse anche l’essenza incorporea di un sentimento.