Scritto dai gemelli Hayes (House of Wax, The Reaping) con il titolo provvisorio di “The Warren Files“, The Conjuring è il nuovo film di James Wan, il regista del primo Saw e del più recente Insidious, con il quale ha in comune un certo impianto di fondo e un approdo definitivo verso quelle atmosfere da “ghost story” old school. Il film di Wan è direttamente ispirato alle ricerche dei coniugi Edward “Ed” Warren Miney e Lorraine Rita Warren, investigatori di fenomeni paranormali, gli stessi che all’inizio degli anni ’50 fondarono uno dei primi centri di ricerca parapsicologica, la New England Society for Psychic Research, e che indagarono sulla nota casa infestata di Amityville, soggetto di una serie di adattamenti cinematografici tra cui, come primo della serie, il bel film diretto da Stuart Rosenberg nel 1979, The Amityville Horror.
Chad e Carey Hayes prelevano uno dei tanti casi dei Warren e disegnano uno scenario “classico” per la regia di Wan; The Conjuring è ambientato nel 1971, e si sviluppa intorno alle vicende della Famiglia Perron, Roger (Ron Livingston) e Carolyn (una dolente Lili Taylor), questi si trasferiscono in una vecchia colonica nel Rhode Island con i loro cinque figli, ma la loro permanenza sarà presto turbata da una serie di eventi inquietanti: la morte improvvisa del loro cane, piccioni che si schiantano sulle pareti esterne dell’abitazione fino a morire, porte che si chiudono da sole, alcune presenze che si manifestano attraverso la percezione delle due bimbe più piccole, una serie di lividi che cominciano a coprire le braccia e il volto di Carolyn. I Warren, allertati del problema durante uno dei loro numerosi convegni sulla possessione diabolica, si installeranno a casa Perron con tutte le attrezzature di rilevazione per imbastire una lotta con le presenze che infestano l’area e improvvisare un terribile esorcismo.
James Wan abbandona definitivamente l’insistenza pornografica sul dettaglio, si concentra in modo estensivo sull’organizzazione dello spazio, aspetto del resto centrale anche nel suo Saw, e lo fa riferendosi a quei numerosi modelli tra il 60 e la prima metà dei ’70 che rovesciavano di senso la sicurezza del recinto famigliare: dalla versione del “Giro di vite” di Henry James diretta da Jack Clayton, fino a “Gli Invasati” di Robert Wise e al modo in cui viene filmata una casa nel cinema Horror Americano dopo l’Esorcista di Friedkin. Il tentativo è quello di realizzare un film “anni ’70” a tutti i costi, puntando molto sulla ricostruzione ambientale, sul lavoro del Colorist, sui movimenti di macchina, su alcuni zoom a schiaffo, su un campionario di immagini già storicizzate insomma, che potrebbero far la felicità di chi è caccia di citazioni da snidare.
L’attenzione agli strumenti di rilevazione, come per esempio registratori a nastro che non riescono a catturare la sorgente del suono proveniente da una realtà extra-sensibile, sistemi fotografici analogici che fissano quello che l’occhio non riesce a vedere, il rumore bianco di un televisore sempre acceso, sembrano alludere ad una teoria del dispositivo già vista che niente ha a che vedere, per esempio, con il notevole “Sinister” di Scott Derrickson, dal quale Wan cerca, invano, di riproporre alcune idee sulla visione periferica.
Il tentativo di farne un film sulla famiglia e i suoi oggetti, aspetto su cui Wan sembra insistere fin dai primi minuti del film con la storia della bambola, ci sembra che non abbia niente della forza caotica dell’Amityville di Rosenberg, dove la casa era veramente il centro, rovesciato, di un universo cognitivo famigliare, con spazi e oggetti defunzionalizzati e impazziti; ne “L’evocazione” tutto rimane sullo sfondo, quasi a suggerirci che l’unica sorpresa, l’unica paura possibile è quella del riflesso o dell’effetto peek-a-boo. L’unica lotta davvero emozionale, tra l’organico e l’incorporeo, sembra avvenire sul corpo coperto di lividi di una straordinaria Lily Taylor, il cui volto trattiene quella disperazione terribile di una madre tra il desiderio folle di uccidere i propri figli e un barlume, davvero dolente, di amore che non riesce a dialogare con il male.
Non è forse un caso che il motivo ricorrente sia il piccolo Carillon trovato da una delle figlie di Carolyn, che una volta aperto, mostra uno specchio girevole e un piccolo clown a scomparsa; è attraverso quello specchio che si materializzano i riflessi delle presenze, è su quello “schermo”, puntato verso di noi, che Wan chiude il suo film su un Cinema popolato da fantasmi.