Dopo Just the Wind, presentato in concorso a Berlino 62, Bence Flieagauf torna a dialogare con il suo cinema più sperimentale, per altro mai abbandonato anche nelle co-produzion accessibili, in quella relazione acusmatica che ne ha caratterizzato l’elemento principale. Lilion Osvény é sicuramente un’opera oscura e difficile, più vicina alle prime cose del regista ungherese che ad un film come Womb. Ma è proprio con quest’ultimo che ha più di un punto di contatto, prima di tutto per la relazione madre-figlio che rimane al centro di una narrazione frantumata e ricombinata secondo le dinamiche del flusso di coscienza, della fiaba legata alle tradizioni della terra ed infine del cinema fantastico. Dei tre livelli nessuno predomina, grazie alla destrutturazione tra suono e immagine che Fliegauf radicalizza, basandosi su aspetti che già conosciamo: l’oralità del racconto, i suoni del mondo organico e quelli della realtà inanimata, la cui persistenza si fa sempre più complessa perché non è caratterizzata solamente dal rumore bianco e dalla vita degli oggetti, ma anche dalla persistenza di un’aura sonora e visiva che abita i luoghi e soprattutto le abitazioni, nel corso del tempo.
In questo senso, fiaba, realtà e presenze da un’altra dimensione si riversano l’una nell’altra attraverso un viaggio nella memoria che mantiene un alto livello di empirismo nella registrazione degli eventi, non importa a quale mondo appartengano, perché è l’intensità dell’ascolto che li rende permeabili, oltre alla funzione di “stalkers” dei due protagonisti.
Il rapporto con la terra, il ciclo della vita e la relazione stretta dei vivi con gli organismi in decomposizione è un elemento centrale come in Womb, ma molto meno didascalico, tanto da occupare quasi ogni immagine del film come un transito continuo da un mondo all’altro. Tra tutte le sequenze che ci hanno colpito, quella della piscina dove il bambino osserva il corpo nudo e pieno di rughe di una vecchia mentre si spoglia. È una sequenza che mantiene un alto grado di ambiguità della visione, quasi fosse l’apparizione di una creatura ancestrale, l’immagine della morte, l’intrusione di un alto grado di realismo nel generale andamento onirico del film.
E Fliegauf procede più volte in questo modo: quando madre e figlio vanno a trovare il nonno ormai isolato in una radura in riva al fiume lontano dalla civiltà, incontro che viene filmato con i tempi e la scoperta dell’orizzonte visivo tipici della fiaba tradizionale, ma che allo stesso tempo sembra il documento sulla scomparsa di un mondo che coesiste a quello nominalmente civilizzato.
Una stratificazione simile avviene quando madre e figlio prendono possesso della casa abbandonata dove la nonna del piccolo ha vissuto l’ultimo periodo della sua vita. È un ambiente che trasuda morte e che viene attraversato dalla vitalità del gioco che i due imbastiscono fin dall’inizio del film. Non è solo la visualizzazione di un lutto da elaborare, ma il conflitto diretto tra vita e morte, coesistenti nello stesso luogo. Quando la mobilia della casa verrà distrutta in un gesto di liberazione violentissimo che sembra presagire un’epifania terribile, in realtà assistiamo alla celebrazione della vita attraverso un rituale di appartenenza e spossessamento in parallelo.
Fliegauf, che ha curato come al solito, la scelta dei luoghi, parte della fotografia inzieme a Zoltàn Lovasi e tutto il design sonoro, scompone e sconnette i suoni dalla sorgente originaria, trasformandoli in quel rumore che anche gli occhi possono seguire.