Antonio Pane fa un solo, inusuale lavoro, che li contiene tutti; gli vengono assegnati incarichi di rimpiazzo, per una, massimo due giornate, dove viene chiamato a sostituire persone che per un breve lasso di tempo devono assentarsi; mentre esercita questo precariato ai limiti della legalità si troverà a deambulare per una Milano spettrale e oscura fotografata da Luca Bigazzi, che mantiene molto di quell’incedere rigoroso del cinema di Gianni Amelio, tanto che L’intrepido, oltre ad un registro di surrealtà quasi fumettistica e allo spirito del De Sica più magico, è il film che avrebbe potuto avvicinarsi più di altri, all’intimità generazionale di Colpire al Cuore, sicuramente per la centralità del rapporto padre-figlio, ma anche per la frequenza con cui inquadra spazi urbani alieni rispetto a chi li abita; sono tutti i luoghi di lavoro che Antonio frequenta, la sua abitazione, le strade notturne, i carrelli laterali che scandagliano luoghi meno conosciuti di Milano, il magazzino di stoccaggio e di lavorazione del pesce, e alla fine persino l’obitorio, dove i pezzi di Lucia potrebbero essere scambiati per un branzino eviscerato.
Eppure si ha la sensazione, proprio pensando a Colpire al Cuore, che a mancare sia proprio quel senso di vuoto che il regista di origini Catanzaresi riusciva a cogliere inquadrando d’improvviso un vetro infranto o altri segni che ellitticamente sostituivano alla parola il senso di un’incolmabile distanza generazionale.
Non è semplicemente il tono più conciliante di questa favola amara e l’ottimismo oltranzista di Antonio Pane a fare la differenza, ma il modo in cui Amelio si rapporta all’immagine di questo vuoto (vuoto di lavoro, vuoto di affetti, vuoto ideologico, vuoto di senso) risolvendo tutte le ellissi, e affidandosi ad un Antonio Albanese bravissimo, ma che in qualche modo è un attore che sviluppa da tempo una comicità della parola.
Sarebbe bastato abbandonarsi maggiormente alle derive del movimento, staccarle dai personaggi, raccontare altre storie, ritrovare una libertà che sembra mancare ad Amelio da un po’ di tempo.
Pur non cedendo al grottesco deformante che in qualche modo chiude buona parte del cinema italiano contemporaneo in un vicolo cieco, L’intrepido si avvicina a quei territori, semplicemente sfiorandoli e affrontandoli forse con un’ingenuità fuori dal tempo, risultando in questo senso, un film indeciso e incompiuto. Non gli si disconosce certo onestà, ma se per molte ragioni, sembra scivolare in alcune forme retoriche imbarazzanti, è proprio per questo strappo tra città e individuo, per questo vuoto incomunicante tra generazioni, che sembra interessargli ancora, ma che ne L’intrepido non riesce ad andare sino in fondo come possibilità dello sguardo, rimanendo in una posizione illustrativa.