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Lo chiamavano Jeeg Robot di Gabriele Mainetti: la recensione

Lo chiamavano Jeeg Robot di Gabriele Mainetti, la recensione di un film che funziona a ,metà

C’è una differenza nettissima tra la suburbia romana del film di Mainetti e le contaminazioni trans-mediali de Il Ragazzo Invisibile, pregno di imprestiti salgariani e residui di un decor retrofuturista. Mentre il lavoro di Salvatores costruisce uno spazio immaginale di derivazione letteraria, il regista romano trae ispirazione dai colori marci del degrado di Tor Bella Monaca e contamina tutta la fotografia livida del suo film, gli interni dove vive Enzo Ceccotti (Claudio Santamaria), le baracche che nascondono le attività criminose de Lo Zingaro (Luca Marinelli), i cieli plumbei sopra l’olimpico, per descrivere una città mutante invasa dai segni della street art, sovrapponendo così la mitologia sulle origini di un supereroe ad una morfologia urbana che in parte procede parallela alla descrizione che Caligari ha fatto dell’Ostia anni ’90 nel suo postumo Non Essere Cattivo, dove alla carta da parati che si spalanca su paesaggi esotici farlocchi e agli elettrodomestici di un nuovo “boom”, sostituisce l’accumulo di tecnologia, il videoproiettore, il porno compulsivo.

Come Caligari, Mainetti punta ad un lirismo radicato nei contrasti, non solo tra sogno e realtà ma anche di tipo cromatico. Quella persistenza di un segno rosa sul grigiore degradato, dal palloncino fino al vestito da principessa che Enzo acquista per Alessia (Ilenia Pastorelli) è un esempio che include la forza e anche la debolezza di “Lo Chiamavano Jeeg Robot”, assolutamente riuscito quando sintetizza nel corpo e nella schizofrenia di Marinelli tutta questa ipertrofia popolare (Zero, la Bertè, Anna Oxa, le canzoni anni ottanta, gli eccessi di un romanticismo queer) più debole invece quando si rischia l’allegoria esplicita con la surrealtà della fiaba che erompe nella realtà brutale di provincia.

Se da una parte Mainetti guarda alla tradizione più laida e iperviolenta dei supereroi, la stessa che è in qualche modo confluita nel bel serial dedicato a Jessica Jones,  con tutte le differenze del caso ovviamente; è la città ad interessarlo, i luoghi deserti dal lungotevere al luna park, i complessi architettonici, l’orizzonte urbano di un sogno residenziale spezzato, che ha sostituito l’asse camorristico Scampia – Tor Bella. Tutti gli scontri del film accentuano questo contrasto tra corpi e presenza minacciosa dello spazio circostante: cantieri svuotati, il Tevere contaminato, l’Olimpico, Roma dall’alto.

Ed è una Roma disumanizzata quella che descrive Mainetti, più precisa e feroce delle città nude di Ferrara e Sollima, meno dolente e un po’ più pulp di circostanza rispetto all’insuperato Caligari.

RASSEGNA PANORAMICA
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Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.
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