A otto anni di distanza, Andrea Štaka realizza il suo secondo film di finzione e torna a Locarno dopo aver vinto il pardo d’oro con il precedente “Das Fräulein”. “Cure, the life of Another” è ambientato nella Dubrovnik post-bellica, luogo dove Linda, ragazza di 14 anni, torna con il padre dopo l’infanzia passata in Svizzera. Qui conosce Eta, con cui instaura una sincera amicizia. Quando questa guida Linda in un luogo nascosto a picco sul mare, le due ragazze avranno modo di esprimere le loro pulsioni in un gioco di travestimenti e scambi amorosi che allude sin da subito ad un complesso confronto identitario. Il gioco finirà presto in seguito ad un litigio feroce che si risolverà tragicamente con la caduta di Eta dalla scogliera e un’ambiguità di fondo sulla responsabilità del gesto che assumerà progressivamente le caratteristiche di una perturbante ricognizione sull’idea del doppio, dove ciò che viene costantemente messo in discussione dalla Štaka è proprio la relazione tra sguardo e agnizione, identità e personalità multiple. Quando Linda, o quella che lo spettatore suppone sia Linda, considerato il tentativo della Štaka di sottrarre continuamente elementi narrativi che possano offrirci un sicuro appiglio, prende il posto occupato da Eta nel suo contesto famigliare, lo fa attraverso le tracce presenti nel diario privato lasciato dall’amica morta, vera e propria mappa cognitiva di una vita duplicata prima ancora che vissuta. Su questo simulacro psicologico Andrea Štaka costruisce un film che sembra strizzare l’occhio alle “repulsioni” Polanskiane come dimensione politica e sessuale allo stesso tempo; se infatti il precedente film della regista di Lucerna cercava di esaminare tre diverse storie di immigrazione dalla ex Jugoslavia in territorio Svizzero, in questo caso il movimento è opposto e sceglie la via di un’interiorizzazione estrema non sempre facile da cogliere nelle sue stratificazioni politico-identitarie. Rimangono i segni di un’opera comunque affascinante, un buco nero dal forte impatto visivo, che traspone il complesso percorso identitario di una nazione in un luogo dove il trauma della perdita, il senso di colpa e la sconnessione dalle proprie radici, sembrano un abisso senza fondo.